A.M.A.(TI) auto mutuo aiuto

A tutti quelli a cui capita d'nciamparsi

Insieme per discutere su problematiche inerenti al mondo interiore, al rapporto con l'altro, alla relazione genitori-figli, attraverso il dialogo collettivo perchè con gli altri sarà più semplice prendere coscienza di se stessi. con la partecipazione del dott. Nanni Pepino (psichiatra-psicoterapeuta).

Su questo blog saranno visibili, l'orario e il giorno per incontrarci settimanalmente su Skype al contatto: A.M.A(TI)
L'appuntamento è previsto
ogni mercoledì dalle ore 21:30, alle ore 23:00

Partecipare è gratuito, usufruendo del servizio Skype.

*Eventuali modifiche di orario e giorno, verranno aggiornati direttamente su questo blog.

giovedì 11 febbraio 2010

AUTO MUTUO AIUTO

“Buon giorno,” disse il piccolo principe.
“Buon giorno,” disse il mercante.
Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete…
Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere.
“Perché vendi questa roba?” disse il piccolo principe?
“E' una grossa economia di tempo,” disse il mercante.
“Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano
cinquantatré minuti alla settimana.”
“E che cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?”
“Se ne fa quello che si vuole…”
“Io,” disse il piccolo principe, “se avessi cinquantatré minuti da spendere,
camminerei adagio adagio verso una fontana…”

(Il piccolo principe - Antoine de Saint-Exupéry)

I gruppi di Auto Aiuto come sostegno.

La cultura e la pratica dei gruppi di auto aiuto stanno diventando risorse sempre più importanti e vicine ai cittadini.

L’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità) li considera fondamentali per ridare agli stessi cittadini responsabilità e protagonismo, per cercare di migliorare il benessere della comunità.
Ed è proprio nel principale rispetto di tali finalità che l’ALPA (Associazione Liberi dal Panico e dall’Ansia ) ha istituito i gruppi di auto aiuto, su tutta la rete nazionale.

L’auto aiuto è un metodo che aiuta a conoscere se stessi attraverso gli altri. Il suo valore terapeutico è caratterizzato prevalentemente dal fatto che ognuno è contemporaneamente fornitore e fruitore di aiuto.

La partecipazione al gruppo offre l’opportunità di incontrare altre persone che vivono lo stesso disagio ( ansia e panico), di condividerlo e di ritrovare la forza per riaffrontare positivamente la propria vita.

Il gruppo di auto aiuto, se da un lato ci dà la possibilità di mettere a nudo la paura del panico affinché quest’ultimo non resti dentro di noi a massacrarci e a portarci dove vuole lui, dall’altro ci insegna a conoscerlo, a non temerlo per poterlo ascoltare, a viverlo per trasformarlo, con consapevolezza e senza timore.

I membri del gruppo sono un gruppo di pari: è il fatto di vivere, o di aver vissuto, una stessa condizione che definisce l’appartenenza al gruppo. Nel gruppo si condividono le proprie esperienze, si impara ad ascoltarsi e a relativizzare il proprio vissuto.

Il sentirsi accettato nel gruppo può contrastare il senso di solitudine che il disturbo di panico talora, fa sperimentare in famiglia e/o nei rapporti sociali.

Nel gruppo di auto aiuto si può parlare liberamente dei propri vissuti e sentirsi capiti profondamente e in modo totale.
L’auto aiuto, infatti, funziona attraverso la relazione di ascolto, un ascolto profondo e attivo che soggiace ad una regola assoluta: la sospensione del giudizio e pregiudizio sull’altro che si sentirà, pertanto, incoraggiato ad esprimersi liberamente e più facilitato al superamento della vergogna……..Quella vergogna che generalmente si prova nel disturbo di attacco di panico. L'ascolto attivo si basa sull'empatia e sull'accettazione, si fonda sulla creazione di un rapporto positivo ed è caratterizzato da ''un clima in cui una persona possa sentirsi empaticamente compresa'' e, comunque, non giudicata……

Nel gruppo è prevista la presenza di un “ facilitatore della comunicazione o Helper”, un conduttore il cui ruolo è complementare al ruolo dei partecipanti e che offre come risorsa nella relazione d’aiuto, il suo vissuto personale derivante dalla trasformazione della sua malattia in guarigione. E non solo: svolgere il ruolo di helper accresce il senso di controllo ed autostima ed innalza la considerazione positiva delle proprie capacità. L’helper non assume atteggiamenti da psicologo o psicoterapeuta, non si ritiene più abile degli altri, ma favorisce la crescita di ognuno percependola e facendola percepire all’intero gruppo.

domenica 7 febbraio 2010

Le donne e la depressione

MILANO - Le donne hanno paura della depressione. Pensano che con quel velo nero davanti agli occhi il mondo non potrà essere più lo stesso: il velo potrà forse diventare grigio, ma nulla tornerà come prima. Tanto che un'italiana su due considera il male oscuro più incurabile del tumore al seno, che spaventa «solo» una su quattro. Un dato sorprendente, che arriva dalla prima indagine nazionale sulle donne e la depressione, promossa dall'Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (ONDa) e realizzata da Giuseppe Pellegrini, ricercatore sociale all'Università di Padova, intervistando 1.016 donne fra i 30 e i 70 anni.

LE RAGIONI - Perché tanta paura? «Le donne conoscono gli effetti della depressione, sanno che si insinua nelle loro vite, alienandole: il 65% di loro l'ha vissuta sulla propria pelle o vista da vicino, su familiari o amici. Ma la temono soprattutto perché non hanno fiducia nelle cure», risponde Francesca Merzagora, presidente di ONDa. La maggioranza infatti pensa che le terapie possano contenere in parte le conseguenze della malattia, ma non risolvano davvero il problema. Anche una revisione di studi che hanno coinvolto oltre 700 pazienti, condotta dall'università della Pennsylvania e pubblicata a gennaio su Jama, ha alimentato dubbi, ipotizzando che gli antidepressivi siano efficaci soltanto nei casi più gravi, mentre non siano determinanti nei casi lievi. «Nelle depressioni di grado lieve, farmaci e psicoterapia si equivalgono; talvolta è più utile la psicoterapia — commenta Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze all'ospedale Fatebenefratelli di Milano —. In caso di depressione moderata o grave gli antidepressivi sono validi, ancor di più se associati alla psicoterapia. Chi viene trattato con i farmaci guarisce nel 34% dei casi e in un altro 36% vede l'entità dei sintomi più che dimezzata. Se si associa una psicoterapia, la percentuale di chi trae benefici dalle cure sale all'80%». Questo le donne non l'hanno capito: molte certo ricorrerebbero alla psicoterapia, benvista dall'85% delle intervistate, o ai gruppi di auto-aiuto, che riscuotono la fiducia dell'80%. Solo una su due, però, crede che i farmaci possano fare la differenza, sebbene nelle forme medio-gravi siano indispensabili. Chi li ha provati li apprezza un pò di più.

SOLO LA METÀ SI CURA - «Poco più delle metà dei pazienti arriva a curarsi, e di questi il 60% riceve trattamenti inadeguati o insufficienti. Così, a un mese dall'inizio delle cure il 30% ha già gettato la spugna e solo uno su tre segue la cura quanto e come si deve — spiega Mencacci —. Nelle donne accade anche perché per motivi biologici c'è una maggiore sensibilità agli effetti collaterali dei farmaci, che inoltre hanno una diversa efficacia a seconda del momento della vita, ad esempio durante l'età fertile o in menopausa. Così molte abbandonano prima di ottenere un risultato: da qui le ricadute, gli insuccessi, la sfiducia. E la paura». Leggendo i dati raccolti da ONDa c'è però qualcos'altro che balza agli occhi e preoccupa: le donne che soffrono di depressione, oltre a ritenere la loro vita stravolta dalla malattia, in sette casi su dieci provano vergogna o senso di colpa per essere malate. Ancora lo stigma? «Purtroppo sì — risponde lo psichiatra —. Le donne, che della depressione sono le vittime più frequenti, sentono di non trovare attorno a sé la stessa comprensione che avrebbero se fossero malate di un tumore al seno o di un'altra patologia "tangibile". Così, ancora oggi si sentono giudicate, provano vergogna e senso di colpa». Tanto che spesso scelgono di non parlarne con nessuno: nel 2010, una donna con la depressione su sei non chiede aiuto. E non guarisce da una malattia che si può e si deve curare.

mercoledì 3 febbraio 2010

Dal Narcisismo alla Socializzazione nella Comunicazione OnLin



http://www.facebook.com/photo.php?pid=4820964&id=755322570&comments&alert


Una "esternazione donativa" dunque, che nasce dal desiderio di esprimere e condividere e che viene oggi di molto facilitata dalla Rete, un mezzo che Ignazio Licata definisce infatti giustamente "un catalizzatore ed un possibilità"

Un mezzo, come dice Graziano Terenzi, che "mettendo in comunicazione interattiva le persone puó aiutare ... a costruire un orizzonte di senso condiviso ... (portando anche) ... a processi di collaborazione su attivitá concrete"

E quello della "collaborazione" mi sembra un concetto chiave, che descrive la possibilità di superare ulteriormente i limiti cutanei del nostro Io (si veda "l'Io Pelle", di Anzieu) e tutti i vincoli solipsistici e narcisistici, permettendo di mettere fianco a fianco le comunic-azioni personali e di interpolarle e mescolarle fino alla costruzione di un "campo mentale condiviso"

Come accade in tutti gli insiemi gruppali; del resto anche descrivendo i gruppi parliamo di "rete matriciale psicodinamica" e d'altra parte la Rete è un grande campo gruppale (e rimando in proposito alla mia nota precedente "La Gruppalità Mediatica e la Comunicazione on-line" http://www.facebook.com/note.php?note_id=52273194506)

Un immenso campo gruppale, dicevo, spesso fragilmente sospeso tra l'esibizione e la collaborazione, sotteso da un "mezzo digitale sociale" in continua e rapida evoluzione, dunque anche un campo mentale (reale e non solo virtuale) in continua trasformazione, nel quale, come suggerisce Susanna Garavaglia, "siamo gli apripista di qualcosa che diventa vecchio ad ogni suo respiro, questo é il punto che genera confusione e perplessità"

Ma qualcosa ci spinge ad andare avanti donativamente, nonostante il caos, gli strappi, le diffidenze e le difficoltà della CMC, esponendoci a volte anche più di quanto faremmo in una situazione gruppale di incontro fisico e appoggiandoci con speranza alla Rete; superando spesso anche i limiti della privacy, per uscire dall'isolamento solitario e trovare nella gruppalità digitale un rispecchiamento e/o un con-fronto

Come nella nota di Mario Esposito descrive anche Corinne Pulce Colorata: "La riservatezza viene sacrificata al desiderio di rappresentarsi, al tentativo di non essere solo un anonimo di passaggio!"

In questo sforzo collettivo di esternazione autopoietica rappresentazionale e semantica, nel tentativo di passare da un donativo accostamento di singole "visioni narcisistiche" ad una fattiva "collaborazione socialistica", si pone però prepotentemente il problema dell'autenticità come unica dimensione che può rendere fertile il campo condiviso delle comunicazioni e delle interazioni

E su questo punto Diletta Morgan ci invita a riflettere sul fatto che "L'autenticità esiste solo se è portata fuori, ed è quindi condivisa. Ci si trova nella cultura del relativismo, perciò ognuno ha la propria idea e ne fa sfoggio, particolarmente sul web, reiterando gli stessi soggetti quasi a rinforzare le mura di quanto va affermando. Il confronto aiuta a essere meno monolitici, a mettere in discussione un'idea e talvolta, se sottoposto ad una critica attenta, amplia le vedute" ... (anche se, qui in Rete) ... "Parlare con persone che non conosci è molto difficile, ma piano piano puoi acquisire un senso di familiarità. E' un lavoro di costruzione lento e progressivo. Richiede grande pazienza e abilità ad ascoltare. Ognuno decide quale sia la parte di sé comunemente cedibile in una discussione di gruppo ... considerando il rischio, che le informazioni che condividiamo, possono essere osservate da altri. Il nucleo di una persona difficilmente si rivela, tuttavia qualche eccezione è possibile ... come nella vita reale"

Proporsi in piena autenticità significa superare i limiti della nostra stessa "identità di facciata", significa proporre anche qualcosa di profondo e di fortemente emotivo, che proviene dal nucleo stesso del nostro essere, dall'intimità dell' "autos", che si trova spesso ben nascosto e protetto nel centro affettivo e vitale di noi stessi ... mentre ciò che più spesso accade nella comunicazione è solo il reiterativo proporsi di tracce più o meno cristallizzate del nostro "idem", nel tentativo "narcisistico negativo" di se-durre gli altri e riaffermare pezzi di corazza della nostra identità e produrre negli altri una confortante identificazione e un rassicurante rispecchiamento

Il desiderio di comunicare in piena autenticità invece si basa su uno sforzo di esternazione più partecipata, ovvero su una componente "narcisistica positiva" che porta a uscire dai limiti protettivi e conservativi della propria pelle, a superare le identità di facciata, a proporsi veramente, disposti anche a perdere la faccia, pur di raggiungere il cuore degli altri


E sappiamo che la Rete, anche e forse proprio in assenza di contatto fisico ecc ecc, favorisce spesso una comunicazione più autentica e più "immediata", ovvero, giocando sulla parola, più "non mediata" dal controllo o dal bisogno di esibire il proprio pensiero e/o lasciare un segno di perfezione, sia nel senso che di uno sporgersi pieno di desiderio di contatto virtuale che avviene "nei-media" (e il vero virtuale si trova in fondo proprio nelle rappresentazioni della realtà, fisica o digitale che sia, che entrano in risonanza nel profondo della nostra mente nel momento del contatto inter-attivo con altre menti); così come è vero che la Rete favorisce nuove modalità, più autentiche, di proporre le molteplici particolarità della parte più vera e profonda (autos) della nostra identità

Come scrive Luisa Ciancimino, "Il fatto di essere on oppure off line secondo me è relativo, in quanto è ovvio che nell'una e nell'altra modalità si esprimono comunque ... 'Identità'. Il web di certo apre la strada di un nuovo concetto di identità cosi come un'altra prospettiva da cui 'concepire' il concetto di società.é indubbio il potere disinibitorio della comunicazione mediata al computer (CMC) e la sociologia dei new mwdia offre svariati spunti e punti angolari da cui iniziare l'osservazione di quello che da più parti è definito il Mondo virtuale. Il web apre le porte alle multi identità così come al contempo apre a nuovi modi di condividere la conoscenza, le opinioni, le idee, la cultura"

E ancora sui concetti di narcisismo negativo (autocentrante o confermante) o positivo (socializzante e trasformativo) intervengono prima Anna Schettini: "Esiste un narcisismo che si fonda sull'anaffettività, che esclude, non costruisce relazione; esiste un narcisismo che invece è certezza della propria identità, che si afferma costruendo senso e relazione. Un narcisismo che si oppone al "conformismo" del pensiero omologato e indotto"; e poi Mario Esposito: "Empatia, narcisismo "positivo", rivalutazione dei rapporti umani senza "tornaconto": è già abbastanza per amare la rete e le opportunità di scambio culturale ed umano che offre"

A tutto questo vorrei aggiungere brevemente qualcosa, partendo da un esempio che faccio spesso quando parlo della "comunicazione circolare nei gruppi", proponendolo come metafora del possibile superamento di quelle caratteristiche negative del narcisismo, che quando prevalgono tendono solo a con-fermare, saturare e irrigidire la comunicazione, nonché come metafora di quelle caratteristiche positive della esternazione personale, che permettono invece il costituirsi di un campo mentale condiviso fertile e trasformativo

Forse molti di voi conoscono quel gioco infantile, presente in moltissime parti del mondo, che viene anche chiamato "culla di spago", quel gioco in cui si prende un pezzetto di spago di una cinquantina di cm, lo si chiude ad anello e poi con arte lo si prende tra le dita delle due mani, a comporre una figura che sembra per l'appunto l'intreccio di una culla

A questo punto si tendono le mani in avanti e un'altra persona prende con le proprie dita lo spago, infilandole di nuovo ad arte in alcuni precisi punti dell'intreccio e poi allontanando le mani, fino al costituirsi di una nuova figura; e così via di seguito, finchè si riesce a formare nuove figure

Questo gioco mi sembra dare bene l'idea che ciò che il singolo può proporre in un certo momento in un gruppo, come usuale o meglio attuale o momentaneo proprio punto di vista, nasce dallo sforzo di dare forma in quel momento ai propri pensieri, per poi esibire, in modo narcisistico positivo tale forma, proponendola agli altri ... ma non come oggetto rigido e immutabile, bensì come spunto donativo di riflessione, rispeto al quale altri potranno poi, a turno, proporre i loro contributi trasformativi, in un continuo fiorire di conformazioni rappresentazionali, collaborativamente sempre più vicine alla verità (che non è mai patrimonio sclusivo di un singolo, ma solo un limite, desiderabile, ma avvicinabile solo attraverso una con-divisione delle idee, fino al formarsi, quando possibile, di una visione comune)

lunedì 1 febbraio 2010

Citta' Dei Matti domenica prossima, 7 febbraio..ore 20.45...la prima puntata di "C'era una volta la città dei matti..."....tutti su RAI UNO!!!!!!!!!

L’antieroe che liberò i matti val bene questo film

di Toni Jop

C’era una volta Franco Basaglia. E allora? Non è un santo, non è un Papa, non è un grande condottiero ma il suo antieroismo è stato il più potente motore di cambiamento della nostra storia recente: se ne accorgerà il pubblico di Raiuno che per una volta la fiction di prima serata torna sulla terra per raccontare di donne e uomini uniti dalla sofferenza e dal piacere di liberarla. Franco Basaglia era uno psichiatra, un «dottor dei matti» veneziano, e da psichiatra ha distrutto i manicomi, ha affrancato la sofferenza mentale dalla prigionia, ha messo in crisi la sanità, ha messo in crisi la professione, ha messo in crisi la scienza, ha fornito un gancio formidabile alla rivolta contro le istituzioni totali, ha offerto una sponda preziosa al movimento di liberazione che friggeva negli anni Sessanta-Settanta tra le due sponde dell’Atlantico. Tutto qui: dal punto di vista dello spettacolo, diremmo, poco più di niente. Quindi ti aspetti una fiction - di questo si parla - discretamente noiosa, densa, tra l’altro, di contenuti decisamente fuori-moda nei tempi del pensiero brevissimo berlusco-leghista. E invece, seguiamo i fatti: l’altra sera «C’era una volta la città dei matti» è stato proiettato tra i legni del Petruzzelli di Bari davanti a una platea stracolma. Se l’è accaparrato con abituale fiuto Felice Laudadio, patron del BifEst barese alla sua seconda edizione. Tre ore di film - lo si vedrà in due puntate il sette e l’otto febbraio - e neanche un colpo di tosse, alla fine venti minuti di standing ovation, commozione e, ammettiamolo, il cuore più caldo per una vicenda molto corale che si sviluppa sostanzialmente tra due manicomi, Gorizia e Trieste, tappe decisive del lavoro di Franco Basaglia. Regìa intelligente e di gran livello firmata da Marco Turco, sceneggiatura smagliante dello stesso Turco, Alessandro Sermoneta, Elena Bucaccio, Katia Colja, interpretazioni ammirevoli, misurate e in qualche caso entusiasmanti: seguite Fabrizio Gifuni nei panni di Basaglia e proverete l’ebrezza che potevano erogare mostri sacri come Alec Guinness o Peter Sellers. Attendiamo smentite. Niente a che vedere con la qualità alla quale ci ha abituati la fiction, qui siamo a casa del miglior cinema italiano, è un nuovo standard. PAZIENTI TRITURATI La vicenda inizia con un «a-prescindere» stravagante e niente realistico: Franco Basaglia dichiara il suo amore a Franca Ongaro - ancillare nello svolgimento cinematografico dei fatti ma per nulla a rimorchio nella vita vera, non si può aver tutto - e da una finestra veneziana si tuffa in Canal Grande, lei lo segue. Matafora, va bene. Poi, il film riesce miracolosamente a destreggiarsi in un groviglio di situazioni, personaggi, episodi che seguono e rincorrono a grappolo gli spostamenti dello psichiatra da un manicomio all’altro. Quindi, vite di pazienti istituzionalizzati e triturati così come prescriveva la pratica terapeutica prima che Laing, Foucault, Basaglia squarciassero il sipario pazientemente tessuto dal potere su queste realtà atroci. Una «Margherita» - finita da ragazza nel tritacarne della «buona scienza» - da incanto, grazie alla bravura di Vittoria Puccini, denuda il percorso che portava all’esclusione e alla segregazione. Ma tutto il film segue un impianto didascalico che tuttavia non appesantisce la dinamica drammaturgica: serve a capire molti passaggi cruciali della storia di Franco Basaglia. Il modo in cui viene estromesso dalla carriera universitaria, il suo rapporto conflittuale con le istituzioni, la fiducia nel «fare», la teoria e la pratica del convincere. Ma anche la politica - Franco Basaglia era un «compagno» oltre che uno scienziato - e l’Italia di allora. Il suo arrivo a Trieste e il suo lavoro di smantellamento dell’ospedale psichiatrico, la creazione di una rete di servizi territoriali superando la diffidenza della popolazione, l’incessante collaborazione di formidabili psichiatri (da Rotelli a Dell’Acqua)e di altrettanto formidabili infermieri per far sì che si realizzasse la sola grande rivoluzione che l’Italia possa contare nel suo dopoguerra. Il ruolo decisivo del Pci, quello non meno importante dei radicali, l’allargarsi su scala planetaria della fama dell’esperienza triestina. La legge che abolì i manicomi (la 180 del ‘78), il passaggio di Basaglia nella complessa realtà romana, la sua morte prematura e raggelante (1980). Nessuna scorciatoia epica, solo fatti, rinominati ma semplicemente veri, accaduti. Per questo, alcune scene possono risultare forti, impegnative ma conviene guardare senza chiudere gli occhi. «Ci pensavo da tempo - racconta il regista - mi pareva un’impresa quasi impossibile, ma devo ringraziare il coraggio di Claudia Mori che ha deciso di produrre una scommessa così impegnativa. Franco Basaglia per me era un mito, la sua presenza andava ben oltre l’ambito psichiatrico, ho cercato di far parlare i fatti, i personaggi che lo hanno circondato». Fabrizio Gifuni riflette: «In questo film viaggia un messaggio nettamente in controtendenza rispetto alla cultura oggi egemone: l’esperienza di Basaglia dice che cambiare è possibile, che si può fare se si sta insieme, se si lavora insieme, se si libera il nostro cervello». tjop@unita.it

27 gennaio 2010 pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 42) nella sezione "Culture"