A.M.A.(TI) auto mutuo aiuto

A tutti quelli a cui capita d'nciamparsi

Insieme per discutere su problematiche inerenti al mondo interiore, al rapporto con l'altro, alla relazione genitori-figli, attraverso il dialogo collettivo perchè con gli altri sarà più semplice prendere coscienza di se stessi. con la partecipazione del dott. Nanni Pepino (psichiatra-psicoterapeuta).

Su questo blog saranno visibili, l'orario e il giorno per incontrarci settimanalmente su Skype al contatto: A.M.A(TI)
L'appuntamento è previsto
ogni mercoledì dalle ore 21:30, alle ore 23:00

Partecipare è gratuito, usufruendo del servizio Skype.

*Eventuali modifiche di orario e giorno, verranno aggiornati direttamente su questo blog.

sabato 17 luglio 2010

nar e poi ciso!!!!!

http://www.migrantitorino.it/?p=7023

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Lo psichiatra umano di Via Riberi 2 – Torino

Scritto da Redazione il 16 July 2010 in Sanità

Di Nanni Pepino – Psichiatra
Io lo chiamo “psicotrans” (culturale) anche se poi Lauretta si incavola!
Via Riberi 2? ma dov’è mi dice il taxista. “Boh? Dalle parti della mole!
Ma… gli exta..comunitari lo conoscono eccome!
Come ci sono arrivato? Se credessi al caso direi x caso! Dopo il DDL (in)sicurezza con alcuni compagni ci siamo guardsati attorno: necessita dis-obbedire, e….siamo finiti tra i…preti!!!!
La mia compagna.” ma perchè devi occuparti di CLANDESTINI”?
risponta non ,c’è, o forse chi lo sa?
Il giorno dopo< mi occupo del mio CLANDESTINO interno>!
Via Riberi, ….un gineceo… oddio…..e poi tutti sti neri, ispanici, slavi, addirittura cinesi…
Hai voglia di mediatori culturali…. non è un problema di lingua, ma di mente, cultura e…cervello, per quei brandelli che me ne rimangono.
Fatica… ma chi me lo fa fare?
Lina.,stupenda donna, lucida antropologa.” Nanni sei troppo diretto; nella loro cultura bisogna marciare a zig-zag”!
Laura mi guarda e sembra sostenere la mia imbranataggine, lei di esperienza ne ha!
Mi sento uno studente imbranato,
Miranda mi intimidisce. Quante cose sa!
Poi… lentamente… mi ritorna Basaglia:” sono loro che ci insegnano”!
Vero, ancora una volta:muto e ascoltare.
Non sai cosa dire? Taci, ascolta essi-ci!
Poco per volta mi hanno arricchito di saperi, culture, profumi, sapori….
Non esistono “gli africani” “i cinesi” “i marocchini” “i sud americani!
Un caleidoscopio di culture, saperi, esistenze, sofferenze,speranze, disperazioni, gioie dolori, menti, cuori…..
Certo, la mia psicopatologia , fenomenologica, psicodinamica, sistemica, olistica,è un pentagramma su cui si declina ogni melodia, da Mozart al Jaz al Pop, ma le categorizzazioni ingessate, sempre disfunzionali, qui proprio sono spazzatura.
Panico!!! Che fare!? “diversi di tutto il mondo unitevi”!
E dentro di me ognuno di loro riverbera parti credute inaccessibili, murate dalle abitudini, segregate nel campo profughi della quotidianità, delle piccinerie difensive!
Narrazzioni di violenze inaudite,
Nuto Revelli ed “il mondo dei vinti” impallidiscono. Dove hanno trovato il coraggio, cosa ho da donare a loro, così più ricchi di umanità di me, che sanno anche essere più bastardi dell’incrocio tra un cactus ed una lince?
Muto !!!! taci, ascolta,,, esser-ci, con la tua non onnipotenza…è l’unica cosa che, come sempre, puoi fare. E allora ti scopri uomo, non impotente. ( con un po’ di viagra!)
Uomo dolente, uomo , uomo giocoso, uomo fragile, uomo forte dei suoi innumerevoli limiti.
Profonda depressione, mia, loro mi curano ! devo renderglielo!
Uomo che ha bisogno di loro per trovare “quattro mura di umanita”, uomo che si vergogna perchè loro debbano emigrare, ma ancora di più perchè noi abbiamo dimenticato di essere stati migranti.
La gioia di uno sguardo, il godimento di trovare, insieme, il piacere di lenire una ferita, l’aria fresca di uno sguardo altro, il sciogliersi-dentro- di egoismi, razzismi pregiudizi!
Che dire ancora? Grazie via Riberi! Grazie Psico (trans)culturale! – del Ufficio Pastorale Migranti
Almeno finchè, infettati, non ci chiedano il test di italianità. Si sa certe frequentazioni sona ad alto rischio di infettività uman(itari)a
Gallipoli 137\10
nanni pepino

giovedì 15 luglio 2010

PSICO UPM migraniti torino.it By nanni pepino

PSICO UPM,
io lo chiamo "psicotrans" (culturale) anche se poi Lauretta si incavola!
Via Riberi 2?
Ma dov'è mi dice il taxista. "Boh? Dalle parti della mole!
Ma... gli exta..comunitari lo conoscono eccome!
Come ci sono arrivato? Se credessi al caso direi x caso!
Dopo il DDL (in)sicurezza con alcuni compagni ci siamo guardati attorno: necessita dis-obbedire, e....siamo finiti tra i...preti!!!!
La mia compagna." ma perchè devi occuparti di CLANDESTINI"? Risponta non ,c'è, o forse chi lo sa?
Il giorno dopo< mi occupo del mio CLANDESTINO interno>!
Via Riberi, ....un gineceo... oddio.....e poi tutti sti neri, ispanici, slavi, addirittura cinesi...
Hai voglia di mediatori culturali.... non è un problema di lingua, ma di mente, cultura e...cervello, per quei brandelli che me ne rimangono.
Fatica... ma chi me lo fa fare?
Lina.,stupenda donna, lucida antropologa." Nanni sei troppo diretto; nella loro cultura bisogna marciare a zig-zag"!
Laura mi guarda e sembra sostenere la mia imbranataggine, lei di esperienza ne ha!
Mi sento uno studente imbranato,
Miranda mi intimidisce. Quante cose sa!
Poi... lentamente... mi ritorna Basaglia:" sono loro che ci insegnano"!
Vero, ancora una volta:muto e ascoltare.
Non sai cosa dire? Taci, ascolta essi-ci!
Poco per volta mi hanno arricchito di saperi, culture, profumi, sapori....
Non esistono "gli africani" "i cinesi" "i marocchini" "i sud americani!
Un caleidoscopio di culture, saperi, esistenze, sofferenze,speranze, disperazioni, gioie dolori, menti, cuori.....
Certo, la mia psicopatologia , fenomenologica, psicodinamica, sistemica, olistica,è un pentagramma su cui si declina ogni melodia, da Mozart al Jaz al Pop, ma le categorizzazioni ingessate, sempre disfunzionali, qui proprio sono spazzatura.
Panico!!! Che fare!?"diversi di tutto il mondo unitevi"!
E dentro di me ognuno di loro riverbera parti credute inaccessibili, murate dalle abitudini, segregate nel campo profughi della quotidianità, delle piccinerie difensive!
Narrazioni di violenze inaudite,
Nuto Revelli ed "il mondo dei vinti" impallidiscono. Dove hanno trovato il coraggio, cosa ho da donare a loro ,così più ricchi di umanità di me, che sanno anche essere più bastardi dell'incrocio tra un cactus ed una lince?
Muto !!!! taci, ascolta,,, esser-ci, con la tua non onnipotenza...è l'unica cosa che, come sempre, puoi fare. E allora ti scopri uomo, non impotente. ( con un po' di viagra!)
Uomo dolente, uomo , uomo giocoso, uomo fragile, uomo forte dei suoi innumerevoli limiti.
Profonda depressione, mia, loro mi curano ! devo renderglielo!
Uomo che ha bisogno di loro per trovare "quattro mura di umanita", uomo che si
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vergogna perchè loro debbano emigrare, ma ancora di più perchè noi abbiamo dimenticato di essere stati migranti.
La gioia di uno sguardo, il godimento di trovare, insieme, il piacere di lenire una ferita,l'aria fresca di uno sguardo altro, il sciogliersi-dentro- di egoismi,razzismi pregiudizi!
Che dire ancora? Grazie via Riberi! Grazie Psico (trans)culturale!
Almeno finchè, infettati, non ci chiedano il test di italianità. Si sa certe frequentazioni sona ad alto rischio di infettività uman(itari)a
Gallipoli 13\07\10
nanni pepino

mercoledì 14 luglio 2010

Giuliana KISSS

Giuliana Farina 14 luglio alle ore 16.58
eccomi, timida e silenziosa! Che fatica ho fatto per riuscire ad esprimere le mie idee!!! Sono entrata in punta di piedi sperando di non essere osservata ma di osservare e magari lasciare il mio piccolo contributo di esperienza di vita nelle mani di qualcuno che ne avesse bisogno....non pensando di quanto aiuto aveva bisogno la sottoscritta! Ho passato giorni a riflettere sui discorsi affrontati insieme e soprattutto sulle mie parole "non dette" e a come, stringendo i pugni e affrontando la situazione, avrei potuto partecipare all'incontro successivo! Mi sono aperta, richiusa ed aperta di nuovo cercando di carpire e soprattutto di dare. Ho apprezzato la disponibilità di tutti, o quasi a svelarsi, a togliere ogni maschera e la crescita che ne seguiva nell'affiatamento del gruppo. Energie positive. Grazie!!

con\fronto in corso d'opera|

Laura:
Ciao, Nanni.
Nel penultimo incontro del gruppo, avevi chiesto ad ognuno di noi di scriverti una riflessione sul gruppo A.M.A. in Skype.
Io sono nuova, lo sai, e non ho mai partecipato a questi tipi di incontri neanche nei blog, quindi non credo potrò esserti molto d'aiuto.
Il clima che si crea quando ci incontriamo è esattamente lo stesso che c'è quando si telefona ad un amico/a. Non si parte con un tema prestabilito, non ci sono aspettative, ma parlando del più e del meno, come fra amici, escono fuori i problemi, i dolori o le gioie di qualcuno.
A volte è facile parlare, a volte un po' meno, ma quanto fa bene sapere che qualcuno ti sta ascoltando, sentire una o più voci che ti rispondono, ti contrastano, ti confortano!
Durante la notte che segue, mi sembra di stare in un vortice e sento che mi rimbalzano addosso voci, colori, frasi. Niente di definito, nessun particolare riferimento all'incontro appena conclusosi, ma è come se tutto dentro di me fosse in movimento.
Evidentemente i temi affrontati, il modo di affrontarli e i toni usati, muovono qualcosa di sopito che a volte viene collocato nel suo giusto posto e a volte lascia lo spazio alla riflessione nei giorni che seguono.
Quello che mi sconcerta, ma forse è giusto così, è che da questa grande confidenza, a volte intima, che si crea durante l'incontro tra i partecipanti, segue un silenzio, quasi una ritirata nella propria oasi, da parte di tutti nel corso della settimana che segue.
Certamente è giusto così, l'incontro è un momento voluto di confronto, ma io percepisco fortemente questo contrasto.
Sarebbe interessante, come abbiamo detto tutti, che nel gruppo ci fosse un equilibrio di presenze tra uomini e donne.
Ti auguro splendide vacanze, Salutami Voglio Una Bibita :))
Un abbraccio
Laura
Andy:
Capisco esattamente e sento attraverso il ricordo le stesse sensazioni di Laura. Partecipavo a degli incontri di psicodramma che si svolgevano in "weekend intensivi" e tra i partecipanti confusi tra altre persone c'erano anche mie/miei colleghe/i... Laura ha espresso in modo preciso ed attento proprio quelle mie stesse sensazioni di allora: " da questa grande confidenza, a volte intima, che si crea durante l'incontro tra i partecipanti, segue un silenzio, quasi una ritirata nella propria oasi, da parte di tutti nel corso della settimana che segue". Credo che anche quando non c'è una regola esplicita (come esiste in molti gruppi) di non frequentazione dei partecipanti ad un gruppo fuori dal setting del gruppo, questo avvenga in modo spontaneo e naturale.... il gruppo è un luogo diverso da un semplice appuntamento tra amici e forse il punto è proprio che in realtà spesso non si è "amici" nel vero senso della parola e quindi è come se il ritiro fosse un movimento spontaneo dopo una grande intimità per ristabilire un equilibrio perchè altrimenti le emozioni sarebbero troppo forti da reggere in un confronto quotidiano. Questo è quello che ho provato io allora ed è la riflessione che avevo fatto...
Laura:
Non avevo preso in considerazione la tacita e spontanea regola di cui parli, Andy.
Grazie per aver condiviso la tua riflessione
Andy:
a volte questo tacito silenzio (come una sorta di segreto condiviso) aiutava a preservare l'incontro successivo da intromissioni del quotidiano (con le annesse problematiche relazionali che ne conseguono...) e così si poteva creare nuovamente l'atmosfera giusta per l'incontro successivo.
Michele:
o semplicemente, nei rapporti quotidiani o "amichevoli" diamo un'immagine di noi e la racontiamo così bene con impalcature e strutture complesse che è proprio difficlile rinunciare, mentre, quando riusciamo a a parlare con noi stessi attraverso il parlare con il gruppo, stiamo diminuendo le difese e forse anche la sofferenza... forse, ma poi è così difficile portare questo essere nudi fuori da qui...forse.
Andy:
e sì... amaramente vero!!! molto difficile rinunciare alle impalacature... girare "nudi" anche dopo una grande intimità a volte non è così facile... mi fa riflettere perchè la stessa cosa accade in più situazioni... e non solo dopo aver partecipato ad un gruppo A.M.A o simile....
Laura:
Forse il mio problema è proprio questo, che io giro "nuda" sempre. Sono ogni giorno e nei miei rapporti (reali e virtuali) esattamente nuda come quando sto nel gruppo e questo mi fa sentire uno sgradito ospite di questo pianeta.
Molti, moltissimi, forse quasi tutti si barricano dietro armature, offrono immagini di se stessi precostruite, si sforzano di apparire o semplicemente desiderano offrire agli altri un'immagine di se stesssi e non se stessi.
L'ho fatto anch'io per tanto tempo, poi un giorno mi sono stancata, era troppo faticoso, non mi dava nessuna soddisfazione e, ovviamente sono rimasta quasi sola.
Per fortuna le "pochissimissime" persone che ho intorno sono come me, e pur essendo persone socievoli, che amano conversare, hanno (abbiamo) con gli altri solo rapporti falsi, fatcosi, stancanti che poco offrono se non il riempire superficialmente dieici minuti della giornata.
Non mi riferisco, chiaramente, ai rapporti di lavoro nei quali bisogna stare al gioco e non si possono scegliere le persone con cui interagire.
Michele:
mi viene da pensare (oviamente giudicando me stesso) chè definirsi "nudi" o con eccesso di sovrastrutture ( e quindi quasi colpevoli di una mancanza di "purezza") in realtà è solo un naturale risvolto della medaglia, voglio dire che quando abbiamo "la felicità" di seguire le passioni, i sentimenti, le cose in cui crediamo e quando queste cose riusciamo anche a condividerle, allora non si pone più il problema del come siamo e del come interagiamo. Credo che oggi gli spazi di passione, la condivisione delle idealità, il gioco, sia fortemente assente e che questo, nella coppia, nel gruppo, nei rapporti quotidiani, sia la vera mancanza e per uno che come me, di tutto ciò ne ha fatto una motivazione di vita, finisca poi per essere un "lutto" tutto da elaborare....e poi penso arrendedomi.. che sono masturbazioni di un'anima adolescente rimasta imprigionata in una pelle ruvida da vecchio pachiderma..( ho esagerato non mi faccio poi cosi schifo)....:) un ultimo pensiero... é vero che non si possono scegliere le persone con le quali interagire soprattutto mel lavoro (manon solo) ma....riprenderci il diritto di scegliere di agire per quello che sentiamo di essere? perchè no!?
Andy:
io mi sono ripresa quel diritto (non sul lavoro ovviamente) 3 anni fa... avrei dovuto farlo prima e senza necessariamente passare attravero il dolore per arrivare a questa decisione "sana" per la mia vita... ma è stato anche un modo per dare un senso ed una ragione al tutto e per dirmi che non è mai troppo tardi per farlo!!!!!!!
Laura:
D'accordo con te, non è un problema di etichette (nudo o vestito :)) ), ma di essenza.
"oggi gli spazi di passione, la condivisione delle idealità, il gioco, sia fortemente assente" ed hanno lasciato il posto all'avere, all'apparire, e non all'essere.
Essere catalogati per il lavoro che fai, i metri quadri della casa, la macchina che guidi, gli sponsors che ti metti addossso tra vestiti ed accessori, il luogo delle vacanze, i titoli dei tuoi conoscenti e chi più ne ha, più ne metta.
Nei miei più recenti rapporti, non voglio sapere, per esempio, che tipo di attività svlolge il mio interlocutore (quando è possibile), perchè mi interssano le persone nel loro essere, non per il loro stato sociale.
E se queste sono "masturbazioni di un'anima adolescente rimasta imprigionata in una pelle ruvida da vecchio pachiderma", non voglio crescere, perchè non provo alcun interesse per quello che potrei scoprire (anche perchè non avrei nulla da scoprire).
Michele:
ok io mi riferivo " alla mia masturbazione" ma fa piacere sapere che esiste ancora qualcuno che ti fa ricredere e ti aiuta a non rinunciare al sogno... è uno dei primi diritti inalienabili e forse un motivo per amare in senso più vasto ed immaginabile possibile...
Un piccolo "fiore" per voi ....Mikele
Aria e luce
Presente inconsistente, ai margini del mondo.
Aria e luce
L'apparenza del nostro essere civile
mentre ogni cosa è un prodotto ed ogni vita un cliente ed ogni vivere è niente
Aria e luce
In questo confuso caos ordinato creato dall'essere umano auto gestito e clonato
Aria e luce
Illusione di moto perpetuo dal vuoto autoalimentato
Aria e luce
Si procede senza rotta e senza vedere le stelle
senza aspirazioni oltre il nostro video al naso
contenti come siamo della nostra infelicità sottile
che scambiamo per una cattiva digestione
che chiamiamo stress che sopportiamo con frustrazione
Aria e luce
Turisti che non sanno viaggiare
affamati senza gusto del cibo
Aria e luce
Fotografia astratta di una vita trasformata in essenza
Aria e luce
Riprodotta da uno schermo globale capace di simulare la realtà di un'astrazione
per renderla appetibile nel mercato del quale siamo i nuovi schiavi
per un surrogato di emozione
Aria e luce
Uomini senza misura e senza amore, non ci conforti il vivere senza il sudore
e con le pillole che non fanno avvertire dolore.
Aria e luce
Che strano ….
Fermando l'orologio multinazionale…
la clessidra televisiva…
l'orgasmo multimediale…
Aria e luce
Che strano…
Leggero bagliore al quale stento ad abituarmi

Aria e luce odore di fresco e di pulito
Aria e luce senza generatore forzato
Aria e luce senza simulatore virtuale
Aria e Luce….
per cominciare a volare.
Nanni:
Mike, non volando troppo in alto, ho imparato ad essere "naturista" nudista dell'anima. ce l'ho piccolo? è vero ma non mi misuro da mo' col cm! e ci ho guadagnato!
Discorsi complessi.
Stamattina provato a tentare alcune riflessioni, un black out della rete mi ha castrato. Ora saturo di sole, salmastro, ricci cozze, intensità di stupende persone che hanno condiviso con me questa profumata giSolo una nota, Mike! questo non è uno spazio per voli estetico- pindarici! se non riesci a dirti, non"intronare! Please!!
Michele:
Chissà perché penso di aver ereditato la “sindrome di Armida” cioè soffrire in modo esagerato dei giudizi delle persone come te.
Comunque mi accorgo che effettivamente sto perdendo la capacità di critica e forse anche un po di aderenza con la realtà.
Sono tardo a comprendere e quando penso di comprendere , entro malamente ed a gamba tesa nelle cose, detto questo nel merito:
Ho provato a comprendere il perché della tua mail(cosa che ti ho scritto e chiesto) non sono abituato a luoghi di discussione dove ci si racconta e forse non sono proprio capace di raccontarmi.
Sui termini, perché le parole hanno un senso:
“Estetico”: penso, si banalmente estetico, con la presunzione di esserlo perché alla fine di una giornata storta e di merda mi aggrappo a ridicole illusioni di poesia.
“Pindarici”: anche questo possibile, la concretezza delle cose che sto vivendo mi richiede compensazioni cosi sommo atteggiamenti sciocchi ad atteggiamenti inutili.
Caro Nanni, mi rendo conto che approfitto delle tue vacanze, che non ci conosciamo quasi per nulla e che penso sempre di fare grandi cose con il risultato che poi vedi.
Sarà che, se oggi elimino anche queste sovrastrutture, mi sembra proprio un bilancio fallimentare, ma certamente me lo merito ed è ben poco quello che mi resta.
Comunque senza tanti piagnistei provo a ricominciare da li.
Scusa se ho questa poca capacità di reazione e di opportuna comprensione, spero che tu trovi il tuo meritato riposo senza dover assecondare funamboliche presenze.
Grazie comunque anche della critica poco cotta anzi direi “al sangue” cercherò di farne un buon uso un abbraccio Mikele .
Nanni:
Mike, non prenderlo come un rifiuto. Non giudico te, chiedo solo di non "invadere"ed "appesantire" il confronto nel gruppo. Forse mi sono sbagliato ma ho percepito il tuo intervento precedente come un po' roboantemente eccessivo. Se no disturba gli altri del gruppo però ogni intervento è lecito!
SCUSATE IL RITARDO....RICOMINCIO DA TRE..
Stavo conludendo sui commenti di F.B. Ma, un inghippo di rete, mi ha cancellato tutto....grrrrr!
Che Santa patiencia mi tenga una mano sulla testa di c....!!!
Tirem innanz!
Abbiate pazienza e scusate il logorroico (eru-dito), pre-s-untuoso, pistolotto!!! sopportatemi!
BENEVOLO DIS-ACCORDO CON ANDY:
1)Rapporti virtuali\reali. Mi parte che alcuni web-rapporti siano più veri di molti rapporti reali. L'incontro concreto con persone (uomini e donne) conosciuti in rete mi ha fatto toccare con mano che la rete è "una comunità reale con mezzi virtuali";
2)Non rischiamo di confondere lo strumento col contenuto delle relazioni. Pensiamo al Tel e alle lettere. Rapporti a lungo, a tratti, a volte quasi solo epistolari sono tutt'altro che "virtuali. (Freud\Fliess-De Beaouvoir\Sartre-Miller\Anais Nin.....)
3)Sulla questione della "commistione"gruppi\quotidianità: Nei gruppi A.M.A., in A.A., fin'anco nei CAT, l'essere comunità reale, il diventare tribù solidale,luogo pulsante, sofferente, ironico, rispetto alla dispersione anonima-anomica dei non luoghi,è ciò che esplicita le potenzialità autoterapeutiche dei gruppi.L'incontro formale acquista speso specifico, incisività, leggerezza in quanto nutrito, anche, dai sottogruppi\incontri informali, che si intrecciano, si allargano si intensificano tra un gruppo e l'altro. Lo spirito del Gruppo, il non giudicare le persone ma i comportamenti,l'imperativo categorico della non strumentalizzazione reciproca, esportati dal "setting" degli incontri canonici permettono di sperimentare, nel cuore, nella mente e nella carne, modalità altre di in-contro,rispettoso, intenso, vero;
4)Per quanto riguarda i gruppi "terapeutici" più "strutturati, mi rifaccio alle mie esperienze concretamente vissute( Psicodramma analitico -Morel- ,Psicanalisi di gruppo- S.Resnik-,Cartel lacaniani- Genie Lemoine,ecc...)in cui, in modalità differenti, i partecipanti, divenuti in qualche modo coterapeuti,fanno interagire gli incontri "protetti", sotto la guida del terapeuta,con incontri informali, costituendo reti di scambio non rigide ma elastiche [Speck]
5)Basaglia ci diceva:" riusciamo a fare tutto ciò perche, lavoriamo, studiamo,beviamo, mangiamo...scopiamo insieme!"
6)nell'Inghilterra elisabettiana, ancora pervasa dall'imprinting del puritanesimo vittoriano, fino agli anni 70, se si costituiva una coppia "ufficiale" uno dei due DOVEVA lasciare il servizio. La norma crollò xchè stimolava solo clandestinità generatrice di implici equivoci;
7)Pensiamo alle coppie " feconde" (Franca Ongaro\Franco Basaglia-Simone De Beaouvoir\Sartre-i coniugi Cancrini-i Curie-Mitchell e la moglie_ Laing\Cooper-Deleuze\Guattari, ecc....)
8)Amici\colleghi-colleghi\amici- colleghi\amanti. L'importante è non confondere i piani [Studio di Analisi Psicosociale( Kaneklin,Orsenigo, Capranico, Olivetti Manoukian)]
9)Certo un\a facilitatore\trice, un\a terapeuta, financo un\a responsabile di servizio devono ben tenere presenti gli Assunti di Base, di Bioniana memoria che sono la vita di ogni gruppo, che assunti e gestiti ne costituiscono l'inconscio e che,se non riconosciuti e metabolizzati, impediscono ai gruppi di funzionare da "Gruppo di Lavoro"! (*)

APPELLO AI MASCHIETTI:
Perchè continuiamo a delegare alle "femminucce" la gestione dei sentimenti?
perchè abbiamo paura della nostra nudità?
Perchè teniamo i calzini(orribili!)?
Perchè dobbiamo sempre "misurarcelo?
Perchè temiamo la ricchezza delle nostre fraglilità?
(*) VEDI TRA LE MIE NOTE "ASSUNTI DI BASE" W.R.BION
Michele:
Tranquillo.. penso tu abbia ragione. non voluto ma rileggendo penso sia così.
Andy:
Risponderò con calma se riesco questa sera temo un pò sul tardi perchè ho solo una pausa pranzo di 40 minuti e questa sera sono ad un concerto... per cui già chiedo venia per la mia tarda risposta... Nei punti 1-2 sulla tipologia dei rapporti e dei mezzi di relazione mi trovo concorde con te e non mi sembra di aver fatto distinzioni tra reale/virtuale ma ho semplicemente fatto riferimento ad una mia esperienza gruppale passata e non a quelle qui su internet o in chat. E spogliandomi delle mie vesti e degli eventuali riferimenti bibliografici od esperienziali sull'argomento... posso solo dire che se sei in un periodo di fragilità emotiva... sei come una spugna che assorbe emozioni e quando sei in quello stato a volte non è facile essere cosi bravi come in teoria si dovrebbe essere nel riuscire a tenere separati i piani (rif.pto 8)... così in questi casi una pausa ed un allontanamento possono aiutare a ristabilire la lucidità e a non confondersi. Ma adesso devo scappare!!! Il lavoro mi chiama ahimè!!!! Vorrei poter rimane qui ancora un pò... Spero di poter rispondere con più calma più tardi.
Nanni:
Credo ci siamo capiti! un abbraccio Andy!

venerdì 9 luglio 2010

Ricevo da Laura e, autorizzato, posto!

Laura Po 09 luglio alle ore 19.40
Ciao, Nanni.
Nel penultimo incontro del gruppo, avevi chiesto ad ognuno di noi di scriverti una riflessione sul gruppo A.M.A. in Skype.
Io sono nuova, lo sai, e non ho mai partecipato a questi tipi di incontri neanche nei blog, quindi non credo potrò esserti molto d'aiuto.
Il clima che si crea quando ci incontriamo è esattamente lo stesso che c'è quando si telefona ad un amico/a. Non si parte con un tema prestabilito, non ci sono aspettative, ma parlando del più e del meno, come fra amici, escono fuori i problemi, i dolori o le gioie di qualcuno.
A volte è facile parlare, a volte un po' meno, ma quanto fa bene sapere che qualcuno ti sta ascoltando, sentire una o più voci che ti rispondono, ti contrastano, ti confortano!
Durante la notte che segue, mi sembra di stare in un vortice e sento che mi rimbalzano addosso voci, colori, frasi. Niente di definito, nessun particolare riferimento all'incontro appena conclusosi, ma è come se tutto dentro di me fosse in movimento.
Evidentemente i temi affrontati, il modo di affrontarli e i toni usati, muovono qualcosa di sopito che a volte viene collocato nel suo giusto posto e a volte lascia lo spazio alla riflessione nei giorni che seguono.
Quello che mi sconcerta, ma forse è giusto così, è che da questa grande confidenza, a volte intima, che si crea durante l'incontro tra i partecipanti, segue un silenzio, quasi una ritirata nella propria oasi, da parte di tutti nel corso della settimana che segue.
Certamente è giusto così, l'incontro è un momento voluto di confronto, ma io percepisco fortemente questo contrasto.
Sarebbe interessante, come abbiamo detto tutti, che nel gruppo ci fosse un equilibrio di presenze tra uomini e donne.
Ti auguro splendide vacanze, Salutami Voglio Una Bibita :))
Un abbraccio
Laura

martedì 6 luglio 2010

http://amaeleusi.ning.com/notes/Pensieri_torridi?xg_source=msg_mes_network

domenica 30 maggio 2010

Dal dolore alla violenza

Intervento del dott. Nanni Pepino sulla violenza di genere, che non assolve ne accusa nessuno, ma induce alla riflessione.

Musica, aromi e colori per combattere l'ansia


di Paola Felici


Attacchi di panico, ansie, fobie, paure e stress tutti stati d’animo che ci accompagnano nell’arco dell’esistenza come i più insidiosi dei nemici. Arrivano senza preavviso, nei momenti in cui ci si trova di fronte ad una situazione per la quale pensiamo di essere sforniti delle abilità adatte a superare una particolare prova.

Situazioni che possono essere sociali, ad esempio l'entrata nel mondo lavorativo, o personali, come il desiderio di costruire una famiglia. Ci si sente inadeguati e incapaci, non ci si sente consapevoli di essere all'altezza, benché tutti i parametri (ad esempio età fine degli studi, partner) ci indicano che siamo pronti.

Come comportarsi, dunque? Non esiste un metodo universale e assoluto che possa essere adatto ad affrontare la situazione in modo che non degeneri nell'attacco violento. Da molti anni si studiano rimedi e cure tramite alcune tecniche di "armonizzazione", che usano suoni, colori e aromi.

Sappiamo bene quanto la colonna sonora di un film possa provocare emozioni di diverso tipo. Il suono forte e ritmato incute paura e stato d’agitazione, mentre una musica soave e delicata, induce a vivere uno stato emotivo rilassante e sereno. Oppure ben conoscono l'utilizzazione di un colore rispetto ad un altro, coloro che si occupano dell'architettura, un tono che può essere diverso a seconda di ciò che si vuole andare proporre e a raccogliere.

Difficilmente in un grande magazzino prevarranno tonalità di colori rilassanti che assopiscono la mente e il corpo, verranno, invece, scelti tonalità di colori che guidano al movimento e all'attivazione dello stato vigile, con sottofondi musicali ritmati che non lasciano spazio a pensieri e ragionamenti, ma solo all'azione. In una cena romantica si usa accendere candele rosse, nelle compagnie aeree la tappezzeria è composta non da colori che stimolino l'azione, ma bensì che aiutano a rilassarsi. Ma questo non è altro quello che da anni si conosce con il nome di induzione subliminale.

In senso più scientifico, le vibrazioni dei suoni e dei colori, vanno ad agire sui nostri sensori percettivi. È stato dimostrato che le variazioni del numero di impatti sull'occhio, influiscono sull'attività muscolare mentale e nervosa. Questo significa che è sufficiente sottoporre una persona per cinque minuti a un dato colore perché la sua attività mentale e muscolare cambi in maniera evidente.

Gli egiziani usavano una stanza dove le persone potevano attingere al loro colore mancante a scopo di guarigione. Colori e musica, vengono utilizzati per la riabilitazione dei malati e anche dei carcerati.

Un altro fattore importante è quello degli aromi. L'olfatto si genera dalla parte più antica del cervello, ed è l'unico senso a seguire una via senza intermediari. Dalle narici, infatti, va direttamente nella parte più rostrale del cervello dove diffonde il beneficio aromatico. L'olfatto ci porta a contatto con la parte più antica dei nostri ricordi, quelli inconsci. Come per i colori e per la musica, anche gli aromi hanno la proprietà di acquietare ed equilibrare stati di agitazione e di affanno, aiutano nella concentrazione e guidano nella guarigione.

Aromi, suoni e colori sono fattori importanti ma non sufficienti a controllare le situazioni di tensione dell’organismo. Ma se questi sono aggiunti ad una tecnica quale quella del training autogeno, che aiuta a rendere l'individuo capace di conoscere e guidare le proprie sensazioni fisiche ed emotive, vanno a formare nella memoria situazioni pacifiche e controllabili, che nel tempo e con il giusto allenamento, riescono a far dissolvere lo stato di tensione-paura che si presenta in ognuno di noi.

martedì 25 maggio 2010

Mammanarchica ovvero l’anarchia di mamma Francesca


di Milena Galeoto

C’è una schiera di mamme on-line, di forum al femminile, nei quali, ahimè, si assiste allo scambio di dosaggi farmacologici o rimedi naturali per combattere la depressione post-partum”. Poi, grazie al cielo, emergono blog di mamme ironiche, di quelle capaci di strapparti un sorriso e farti ritrovare la serenità di sbagliare in santa pace. Mamme fuori dai comuni manuali, capaci soltanto d’incrementarti i sensi di colpa, di non farti sentire all’altezza, solo perché tuo figlio, ad esempio, non gattona o ancora fa la cacca addosso a soli due anni. Mamme che, finalmente, mostrano con ironia che mamme non si nasce, che sono i figli a suggerirci cosa è meglio per loro, ascoltando anche le bambine che sono in noi.
Tra queste c’è Francesca e il suo essere mamma Punk, quello stesso Punk che ha reso il “rock classico”, molto più coinvolgente, colorito. E ti ritrovi Francesca-Romana-Gallerani-Punk, sulla home di un social network come fb, ritratta in “lezioni di Bigbab”, tra le strade di Genova ad aspettare il papà che, prontamente, commenta di fronte all’immagine del figlio che gonfia un enorme pallone di gum: “il mio bambino...il mio bambino.” E capisci che l’essere genitori è gioia condivisa quando riesci a viverla attraverso il tuo stesso essere bambino.
Immagini e stati molto eloquenti che farebbero bene alle mamme che hanno paura di sbagliare, rinchiuse in quegli schemi che tolgono ossigeno ai loro bambini.
E’ l’autoironia di Francesca, l’eredità preziosa che stimola l’intelligenza dei suoi figli in maniera vitale e costruttiva.
Naturalmente, non tutti colgono l’educazione punk con ironia e non sono pochi quelli infastiditi dalla sfacciataggine di chi è capace a sconvolgere i modelli sociali con una così disarmante naturalezza.
Non sono poche le mamme che mi scrivono in privato, attraverso il blog di A.M.A.TI, nato con l’obbiettivo dell’auto-mutuo-aiuto. Molte di esse, si sentono smarrite, svuotate, lamentano l’assenza del compagno piuttosto che degli amici, familiari o istituzioni.
Uno dei miei consigli, oltre al supporto reciproco che possono ottenere dal blog A.M.A.Ti, durante il nostro incontro settimanale, “a voce”, su Skype, è quello di dare una sbirciata ai vivaci articoli dell’anarchica mamma Francesca-Romana-Punk e al messaggio celato dietro la sua ironia al vetriolo: tramutare il ruolo di madre, in esperienza di vita condivisa, occasione di crescita, condita con una sana leggerezza.
Insomma, non prendiamoci troppo sul serio, direbbe Francesca e mi raccomando, niente mimose e niente feste delle donna e bambini ingessati da adulti che cantano come Al Bano, per carità, meglio una sana bigbubble scoppiata in faccia, scorazzando per i parchi di Genova.

http://mammanarchica.wordpress.com/

mercoledì 19 maggio 2010

Empatia, attaccamento e cura dell'altro


di ROSALBA MICELI



L’empatia (letteralmente “sentire”) è l’esperienza, per dirla con Edith Stein, “alla base di tutte le forme attraverso le quali ci accostiamo a un altro” agendo da riconoscimento dell’individualità di un’altra persona (sei importante per me, ho stima di te e riconosco, rispetto e condivido il tuo sentimento). Nella forma più matura, l’empatia implica un notevole impegno cognitivo, indirizzato a recepire lo schema di riferimento interiore dell’altro, e una componente affettiva che induce a sperimentare reazioni emotive in seguito all’osservazione delle esperienze altrui. Come spiegare il comportamento empatico? Negli ultimi anni questo aspetto di “affiliazione con il prossimo” è divenuto oggetto di indagine scientifica al confine tra evoluzionismo, etologia, genetica, neuroscienze, psicologia e sociologia.

Lo sviluppo dell’abilità empatica appare in relazione all’attaccamento. In accordo alla teoria dell’attaccamento sviluppata dallo psicoanalista britannico John Bowlby, l’attaccamento è una dimensione della mente umana che si organizza a partire dalle prime relazioni tra il neonato e chi si prende cura di lui (caregiver). Una delle funzioni primarie della relazione di attaccamento è la regolazione degli stati del bambino, in particolare degli stati affettivi. I bambini con un attaccamento “sicuro” sanno di poter contare sulla disponibilità del caregiver come “base sicura”, fonte di conforto e cure in situazioni di stress. Di contro, i bambini con un attaccamento “insicuro” sperimentano una condizione in cui la figura di attaccamento non è sufficientemente responsiva ai loro bisogni. “Senza attaccamento non esiste empatia - afferma Boris Cyrulnik, direttore delle ricerche in etologia all’Università di Tolone - provare interesse al mondo degli altri richiede l’abilità di non essere centrati su se stessi. Abbiamo bisogno di una base sicura per provare il piacere dell’esplorazione. Quando siamo supportati da un attaccamento sicuro possiamo sviluppare l’abilità empatica, qualche volta troppo, come nel masochismo, o non abbastanza, nella condizione che porta al sadismo” (Boris Cyrulnik, Di carne e d’anima, Feltrinelli).

Di contro, la vicinanza affettiva alimenta l’empatia: gli studi etologici indicano che i delfini, gli elefanti, i canidi e la maggior parte dei primati rispondono alla sofferenza degli altri, in particolare al dolore provato da un animale con il quale hanno instaurato un legame di attaccamento. In un esperimento significativo, effettuato alla McGill University, due topi venivano collocati all’interno di tubi di plastica trasparente, in modo da potersi osservare a vicenda, e sottoposti ad un trattamento (iniezione di acido acetico) che ne provocava un leggero mal di stomaco ed un conseguente contorcimento. Il primo topo manifestava un’intensificazione della propria esperienza (si contorceva di più) se anche l’altro si stava contorcendo. Ma avveniva solo se i due topolini erano stati in precedenza compagni di gabbia.

In campo umano, ricordiamo un classico esperimento condotto su giovani donne sane dal gruppo di Tania Singer presso il Laboratorio di neuroanatomia funzionale dell’Università di Londra: le donne vennero sottoposte a fMRI mentre i ricercatori praticavano una leggera scossa al dorso della mano. In una fase successiva, erano avvisate mediante uno stimolo visivo che il loro partner, che si trovava nella stessa stanza, stava ricevendo uno stimolo doloroso analogo a quello che loro avevano sperimentato in precedenza. I risultati indicavano che nelle donne alcune aree deputate alla percezione del dolore (corteccia cingolata anteriore, insula anteriore) venivano attivate sia quando la scarica era somministrata alla propria mano sia quando si rappresentava mentalmente la sofferenza del compagno. Inoltre le volontarie che ottenevano punteggi più alti in due scale di empatia emozionale presentavano una più intensa attivazione di queste due aree mentre il partner subiva la stimolazione dolorosa.

L’empatia è congruente con il prendersi cura, sostiene Martin Hoffman, professore di psicologia alla New York University, uno dei più autorevoli studiosi nel campo dell’empatia. Il principio del prendersi cura non si riferisce ad una condizione particolare; come altri principi morali, rappresenta un valore fondamentale. Il principio di cura e l’empatia, pur rappresentando disposizioni indipendenti ad aiutare il prossimo, si rafforzano a vicenda. “L’essere umano ha bisogno di essere preso in cura, ma nello stesso tempo di prendersi cura - spiega Luigina Mortari, ordinario di Scienze dell’Educazione presso l’Università di Verona (nell’articolo “La qualità etica della cura”, Scuola e Formazione, Anno XIII, n.3) - ha bisogno di prendersi cura per costruire significato nella sua esistenza: l’essere umano costruisce un orizzonte di significato prendendosi cura del campo vitale in cui viene a trovarsi. In questo modo si può dire che il fare realtà, ossia mettere al mondo mondi di esistenza, dipende dalla cura”.

Empatia, attaccamento, aver cura dell’altro, costituiscono un circolo affettivo che si autoalimenta e si amplifica estendendosi a mano a mano a individui al di fuori della proprio ambiente familiare o sociale: più entriamo in intima relazione con gli altri, in un processo di riconoscimento e rispecchiamento reciproco, più aumenta la nostra sensibilità empatica e più ricco ed universale diventa l’ambito di realtà a cui abbiamo accesso.

domenica 7 marzo 2010

l’essere-psichiatrachiama in causa l’uomo nel suo insieme e ve lo impegna.


“All’esser-psichiatra appartiene cioè – e qui naturalmente noi non intendiamo riferirsi all’essere di ciò che si suol chiamare , ma piuttosto all’essere psichiatra in quanto tale- il discernimento che nessuna globalità, e men che mai l’uomo , può essere mediante l’approccio ovverosia mediante i metodi propri della scienza.. Da tutto ciò deriva che l’essere-psichiatrachiama in causa l’uomo nel suo insieme e ve lo impegna. Mentre in altri rami della scienza è ammissibile che si possa distinguere più o meno tra loro la professione e l’esistenza e,come si suol dire, trovare in una qualche forma di dilettantismo, in una qualche forma di partecipazione scientifica d’altro tipo, nella filosofia, nella religione, nell’arte,l’essere psichiatra reclama in certo modo anche l’esistenza dello psichiatra; perchè laddove l’incontro e l’intesa comunicativa consentono il raggiungimento del fondo e della base per tutto ciò che può essere considerato come sintomo di malattiao addirittura come malattia e sanità in generale, laddove non esiste nulla di umano che non possa essere giudicato- positivamente o negativamente – nel senso di una circostanza di fatto psichiatrica, là anche il dilettantismo, la scienza, la filosofia,l’arte e la religione possono dover essere progettati ed interpretati come possibilità ontiche e progetti interpretativi della propria esistenza”.
In Psichiatria e Territorio Vol.7 Num.1 Anno1990 Pagine136
Prezzo 15 euro

giovedì 11 febbraio 2010

AUTO MUTUO AIUTO

“Buon giorno,” disse il piccolo principe.
“Buon giorno,” disse il mercante.
Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete…
Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere.
“Perché vendi questa roba?” disse il piccolo principe?
“E' una grossa economia di tempo,” disse il mercante.
“Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano
cinquantatré minuti alla settimana.”
“E che cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?”
“Se ne fa quello che si vuole…”
“Io,” disse il piccolo principe, “se avessi cinquantatré minuti da spendere,
camminerei adagio adagio verso una fontana…”

(Il piccolo principe - Antoine de Saint-Exupéry)

I gruppi di Auto Aiuto come sostegno.

La cultura e la pratica dei gruppi di auto aiuto stanno diventando risorse sempre più importanti e vicine ai cittadini.

L’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità) li considera fondamentali per ridare agli stessi cittadini responsabilità e protagonismo, per cercare di migliorare il benessere della comunità.
Ed è proprio nel principale rispetto di tali finalità che l’ALPA (Associazione Liberi dal Panico e dall’Ansia ) ha istituito i gruppi di auto aiuto, su tutta la rete nazionale.

L’auto aiuto è un metodo che aiuta a conoscere se stessi attraverso gli altri. Il suo valore terapeutico è caratterizzato prevalentemente dal fatto che ognuno è contemporaneamente fornitore e fruitore di aiuto.

La partecipazione al gruppo offre l’opportunità di incontrare altre persone che vivono lo stesso disagio ( ansia e panico), di condividerlo e di ritrovare la forza per riaffrontare positivamente la propria vita.

Il gruppo di auto aiuto, se da un lato ci dà la possibilità di mettere a nudo la paura del panico affinché quest’ultimo non resti dentro di noi a massacrarci e a portarci dove vuole lui, dall’altro ci insegna a conoscerlo, a non temerlo per poterlo ascoltare, a viverlo per trasformarlo, con consapevolezza e senza timore.

I membri del gruppo sono un gruppo di pari: è il fatto di vivere, o di aver vissuto, una stessa condizione che definisce l’appartenenza al gruppo. Nel gruppo si condividono le proprie esperienze, si impara ad ascoltarsi e a relativizzare il proprio vissuto.

Il sentirsi accettato nel gruppo può contrastare il senso di solitudine che il disturbo di panico talora, fa sperimentare in famiglia e/o nei rapporti sociali.

Nel gruppo di auto aiuto si può parlare liberamente dei propri vissuti e sentirsi capiti profondamente e in modo totale.
L’auto aiuto, infatti, funziona attraverso la relazione di ascolto, un ascolto profondo e attivo che soggiace ad una regola assoluta: la sospensione del giudizio e pregiudizio sull’altro che si sentirà, pertanto, incoraggiato ad esprimersi liberamente e più facilitato al superamento della vergogna……..Quella vergogna che generalmente si prova nel disturbo di attacco di panico. L'ascolto attivo si basa sull'empatia e sull'accettazione, si fonda sulla creazione di un rapporto positivo ed è caratterizzato da ''un clima in cui una persona possa sentirsi empaticamente compresa'' e, comunque, non giudicata……

Nel gruppo è prevista la presenza di un “ facilitatore della comunicazione o Helper”, un conduttore il cui ruolo è complementare al ruolo dei partecipanti e che offre come risorsa nella relazione d’aiuto, il suo vissuto personale derivante dalla trasformazione della sua malattia in guarigione. E non solo: svolgere il ruolo di helper accresce il senso di controllo ed autostima ed innalza la considerazione positiva delle proprie capacità. L’helper non assume atteggiamenti da psicologo o psicoterapeuta, non si ritiene più abile degli altri, ma favorisce la crescita di ognuno percependola e facendola percepire all’intero gruppo.

domenica 7 febbraio 2010

Le donne e la depressione

MILANO - Le donne hanno paura della depressione. Pensano che con quel velo nero davanti agli occhi il mondo non potrà essere più lo stesso: il velo potrà forse diventare grigio, ma nulla tornerà come prima. Tanto che un'italiana su due considera il male oscuro più incurabile del tumore al seno, che spaventa «solo» una su quattro. Un dato sorprendente, che arriva dalla prima indagine nazionale sulle donne e la depressione, promossa dall'Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (ONDa) e realizzata da Giuseppe Pellegrini, ricercatore sociale all'Università di Padova, intervistando 1.016 donne fra i 30 e i 70 anni.

LE RAGIONI - Perché tanta paura? «Le donne conoscono gli effetti della depressione, sanno che si insinua nelle loro vite, alienandole: il 65% di loro l'ha vissuta sulla propria pelle o vista da vicino, su familiari o amici. Ma la temono soprattutto perché non hanno fiducia nelle cure», risponde Francesca Merzagora, presidente di ONDa. La maggioranza infatti pensa che le terapie possano contenere in parte le conseguenze della malattia, ma non risolvano davvero il problema. Anche una revisione di studi che hanno coinvolto oltre 700 pazienti, condotta dall'università della Pennsylvania e pubblicata a gennaio su Jama, ha alimentato dubbi, ipotizzando che gli antidepressivi siano efficaci soltanto nei casi più gravi, mentre non siano determinanti nei casi lievi. «Nelle depressioni di grado lieve, farmaci e psicoterapia si equivalgono; talvolta è più utile la psicoterapia — commenta Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze all'ospedale Fatebenefratelli di Milano —. In caso di depressione moderata o grave gli antidepressivi sono validi, ancor di più se associati alla psicoterapia. Chi viene trattato con i farmaci guarisce nel 34% dei casi e in un altro 36% vede l'entità dei sintomi più che dimezzata. Se si associa una psicoterapia, la percentuale di chi trae benefici dalle cure sale all'80%». Questo le donne non l'hanno capito: molte certo ricorrerebbero alla psicoterapia, benvista dall'85% delle intervistate, o ai gruppi di auto-aiuto, che riscuotono la fiducia dell'80%. Solo una su due, però, crede che i farmaci possano fare la differenza, sebbene nelle forme medio-gravi siano indispensabili. Chi li ha provati li apprezza un pò di più.

SOLO LA METÀ SI CURA - «Poco più delle metà dei pazienti arriva a curarsi, e di questi il 60% riceve trattamenti inadeguati o insufficienti. Così, a un mese dall'inizio delle cure il 30% ha già gettato la spugna e solo uno su tre segue la cura quanto e come si deve — spiega Mencacci —. Nelle donne accade anche perché per motivi biologici c'è una maggiore sensibilità agli effetti collaterali dei farmaci, che inoltre hanno una diversa efficacia a seconda del momento della vita, ad esempio durante l'età fertile o in menopausa. Così molte abbandonano prima di ottenere un risultato: da qui le ricadute, gli insuccessi, la sfiducia. E la paura». Leggendo i dati raccolti da ONDa c'è però qualcos'altro che balza agli occhi e preoccupa: le donne che soffrono di depressione, oltre a ritenere la loro vita stravolta dalla malattia, in sette casi su dieci provano vergogna o senso di colpa per essere malate. Ancora lo stigma? «Purtroppo sì — risponde lo psichiatra —. Le donne, che della depressione sono le vittime più frequenti, sentono di non trovare attorno a sé la stessa comprensione che avrebbero se fossero malate di un tumore al seno o di un'altra patologia "tangibile". Così, ancora oggi si sentono giudicate, provano vergogna e senso di colpa». Tanto che spesso scelgono di non parlarne con nessuno: nel 2010, una donna con la depressione su sei non chiede aiuto. E non guarisce da una malattia che si può e si deve curare.

mercoledì 3 febbraio 2010

Dal Narcisismo alla Socializzazione nella Comunicazione OnLin



http://www.facebook.com/photo.php?pid=4820964&id=755322570&comments&alert


Una "esternazione donativa" dunque, che nasce dal desiderio di esprimere e condividere e che viene oggi di molto facilitata dalla Rete, un mezzo che Ignazio Licata definisce infatti giustamente "un catalizzatore ed un possibilità"

Un mezzo, come dice Graziano Terenzi, che "mettendo in comunicazione interattiva le persone puó aiutare ... a costruire un orizzonte di senso condiviso ... (portando anche) ... a processi di collaborazione su attivitá concrete"

E quello della "collaborazione" mi sembra un concetto chiave, che descrive la possibilità di superare ulteriormente i limiti cutanei del nostro Io (si veda "l'Io Pelle", di Anzieu) e tutti i vincoli solipsistici e narcisistici, permettendo di mettere fianco a fianco le comunic-azioni personali e di interpolarle e mescolarle fino alla costruzione di un "campo mentale condiviso"

Come accade in tutti gli insiemi gruppali; del resto anche descrivendo i gruppi parliamo di "rete matriciale psicodinamica" e d'altra parte la Rete è un grande campo gruppale (e rimando in proposito alla mia nota precedente "La Gruppalità Mediatica e la Comunicazione on-line" http://www.facebook.com/note.php?note_id=52273194506)

Un immenso campo gruppale, dicevo, spesso fragilmente sospeso tra l'esibizione e la collaborazione, sotteso da un "mezzo digitale sociale" in continua e rapida evoluzione, dunque anche un campo mentale (reale e non solo virtuale) in continua trasformazione, nel quale, come suggerisce Susanna Garavaglia, "siamo gli apripista di qualcosa che diventa vecchio ad ogni suo respiro, questo é il punto che genera confusione e perplessità"

Ma qualcosa ci spinge ad andare avanti donativamente, nonostante il caos, gli strappi, le diffidenze e le difficoltà della CMC, esponendoci a volte anche più di quanto faremmo in una situazione gruppale di incontro fisico e appoggiandoci con speranza alla Rete; superando spesso anche i limiti della privacy, per uscire dall'isolamento solitario e trovare nella gruppalità digitale un rispecchiamento e/o un con-fronto

Come nella nota di Mario Esposito descrive anche Corinne Pulce Colorata: "La riservatezza viene sacrificata al desiderio di rappresentarsi, al tentativo di non essere solo un anonimo di passaggio!"

In questo sforzo collettivo di esternazione autopoietica rappresentazionale e semantica, nel tentativo di passare da un donativo accostamento di singole "visioni narcisistiche" ad una fattiva "collaborazione socialistica", si pone però prepotentemente il problema dell'autenticità come unica dimensione che può rendere fertile il campo condiviso delle comunicazioni e delle interazioni

E su questo punto Diletta Morgan ci invita a riflettere sul fatto che "L'autenticità esiste solo se è portata fuori, ed è quindi condivisa. Ci si trova nella cultura del relativismo, perciò ognuno ha la propria idea e ne fa sfoggio, particolarmente sul web, reiterando gli stessi soggetti quasi a rinforzare le mura di quanto va affermando. Il confronto aiuta a essere meno monolitici, a mettere in discussione un'idea e talvolta, se sottoposto ad una critica attenta, amplia le vedute" ... (anche se, qui in Rete) ... "Parlare con persone che non conosci è molto difficile, ma piano piano puoi acquisire un senso di familiarità. E' un lavoro di costruzione lento e progressivo. Richiede grande pazienza e abilità ad ascoltare. Ognuno decide quale sia la parte di sé comunemente cedibile in una discussione di gruppo ... considerando il rischio, che le informazioni che condividiamo, possono essere osservate da altri. Il nucleo di una persona difficilmente si rivela, tuttavia qualche eccezione è possibile ... come nella vita reale"

Proporsi in piena autenticità significa superare i limiti della nostra stessa "identità di facciata", significa proporre anche qualcosa di profondo e di fortemente emotivo, che proviene dal nucleo stesso del nostro essere, dall'intimità dell' "autos", che si trova spesso ben nascosto e protetto nel centro affettivo e vitale di noi stessi ... mentre ciò che più spesso accade nella comunicazione è solo il reiterativo proporsi di tracce più o meno cristallizzate del nostro "idem", nel tentativo "narcisistico negativo" di se-durre gli altri e riaffermare pezzi di corazza della nostra identità e produrre negli altri una confortante identificazione e un rassicurante rispecchiamento

Il desiderio di comunicare in piena autenticità invece si basa su uno sforzo di esternazione più partecipata, ovvero su una componente "narcisistica positiva" che porta a uscire dai limiti protettivi e conservativi della propria pelle, a superare le identità di facciata, a proporsi veramente, disposti anche a perdere la faccia, pur di raggiungere il cuore degli altri


E sappiamo che la Rete, anche e forse proprio in assenza di contatto fisico ecc ecc, favorisce spesso una comunicazione più autentica e più "immediata", ovvero, giocando sulla parola, più "non mediata" dal controllo o dal bisogno di esibire il proprio pensiero e/o lasciare un segno di perfezione, sia nel senso che di uno sporgersi pieno di desiderio di contatto virtuale che avviene "nei-media" (e il vero virtuale si trova in fondo proprio nelle rappresentazioni della realtà, fisica o digitale che sia, che entrano in risonanza nel profondo della nostra mente nel momento del contatto inter-attivo con altre menti); così come è vero che la Rete favorisce nuove modalità, più autentiche, di proporre le molteplici particolarità della parte più vera e profonda (autos) della nostra identità

Come scrive Luisa Ciancimino, "Il fatto di essere on oppure off line secondo me è relativo, in quanto è ovvio che nell'una e nell'altra modalità si esprimono comunque ... 'Identità'. Il web di certo apre la strada di un nuovo concetto di identità cosi come un'altra prospettiva da cui 'concepire' il concetto di società.é indubbio il potere disinibitorio della comunicazione mediata al computer (CMC) e la sociologia dei new mwdia offre svariati spunti e punti angolari da cui iniziare l'osservazione di quello che da più parti è definito il Mondo virtuale. Il web apre le porte alle multi identità così come al contempo apre a nuovi modi di condividere la conoscenza, le opinioni, le idee, la cultura"

E ancora sui concetti di narcisismo negativo (autocentrante o confermante) o positivo (socializzante e trasformativo) intervengono prima Anna Schettini: "Esiste un narcisismo che si fonda sull'anaffettività, che esclude, non costruisce relazione; esiste un narcisismo che invece è certezza della propria identità, che si afferma costruendo senso e relazione. Un narcisismo che si oppone al "conformismo" del pensiero omologato e indotto"; e poi Mario Esposito: "Empatia, narcisismo "positivo", rivalutazione dei rapporti umani senza "tornaconto": è già abbastanza per amare la rete e le opportunità di scambio culturale ed umano che offre"

A tutto questo vorrei aggiungere brevemente qualcosa, partendo da un esempio che faccio spesso quando parlo della "comunicazione circolare nei gruppi", proponendolo come metafora del possibile superamento di quelle caratteristiche negative del narcisismo, che quando prevalgono tendono solo a con-fermare, saturare e irrigidire la comunicazione, nonché come metafora di quelle caratteristiche positive della esternazione personale, che permettono invece il costituirsi di un campo mentale condiviso fertile e trasformativo

Forse molti di voi conoscono quel gioco infantile, presente in moltissime parti del mondo, che viene anche chiamato "culla di spago", quel gioco in cui si prende un pezzetto di spago di una cinquantina di cm, lo si chiude ad anello e poi con arte lo si prende tra le dita delle due mani, a comporre una figura che sembra per l'appunto l'intreccio di una culla

A questo punto si tendono le mani in avanti e un'altra persona prende con le proprie dita lo spago, infilandole di nuovo ad arte in alcuni precisi punti dell'intreccio e poi allontanando le mani, fino al costituirsi di una nuova figura; e così via di seguito, finchè si riesce a formare nuove figure

Questo gioco mi sembra dare bene l'idea che ciò che il singolo può proporre in un certo momento in un gruppo, come usuale o meglio attuale o momentaneo proprio punto di vista, nasce dallo sforzo di dare forma in quel momento ai propri pensieri, per poi esibire, in modo narcisistico positivo tale forma, proponendola agli altri ... ma non come oggetto rigido e immutabile, bensì come spunto donativo di riflessione, rispeto al quale altri potranno poi, a turno, proporre i loro contributi trasformativi, in un continuo fiorire di conformazioni rappresentazionali, collaborativamente sempre più vicine alla verità (che non è mai patrimonio sclusivo di un singolo, ma solo un limite, desiderabile, ma avvicinabile solo attraverso una con-divisione delle idee, fino al formarsi, quando possibile, di una visione comune)

lunedì 1 febbraio 2010

Citta' Dei Matti domenica prossima, 7 febbraio..ore 20.45...la prima puntata di "C'era una volta la città dei matti..."....tutti su RAI UNO!!!!!!!!!

L’antieroe che liberò i matti val bene questo film

di Toni Jop

C’era una volta Franco Basaglia. E allora? Non è un santo, non è un Papa, non è un grande condottiero ma il suo antieroismo è stato il più potente motore di cambiamento della nostra storia recente: se ne accorgerà il pubblico di Raiuno che per una volta la fiction di prima serata torna sulla terra per raccontare di donne e uomini uniti dalla sofferenza e dal piacere di liberarla. Franco Basaglia era uno psichiatra, un «dottor dei matti» veneziano, e da psichiatra ha distrutto i manicomi, ha affrancato la sofferenza mentale dalla prigionia, ha messo in crisi la sanità, ha messo in crisi la professione, ha messo in crisi la scienza, ha fornito un gancio formidabile alla rivolta contro le istituzioni totali, ha offerto una sponda preziosa al movimento di liberazione che friggeva negli anni Sessanta-Settanta tra le due sponde dell’Atlantico. Tutto qui: dal punto di vista dello spettacolo, diremmo, poco più di niente. Quindi ti aspetti una fiction - di questo si parla - discretamente noiosa, densa, tra l’altro, di contenuti decisamente fuori-moda nei tempi del pensiero brevissimo berlusco-leghista. E invece, seguiamo i fatti: l’altra sera «C’era una volta la città dei matti» è stato proiettato tra i legni del Petruzzelli di Bari davanti a una platea stracolma. Se l’è accaparrato con abituale fiuto Felice Laudadio, patron del BifEst barese alla sua seconda edizione. Tre ore di film - lo si vedrà in due puntate il sette e l’otto febbraio - e neanche un colpo di tosse, alla fine venti minuti di standing ovation, commozione e, ammettiamolo, il cuore più caldo per una vicenda molto corale che si sviluppa sostanzialmente tra due manicomi, Gorizia e Trieste, tappe decisive del lavoro di Franco Basaglia. Regìa intelligente e di gran livello firmata da Marco Turco, sceneggiatura smagliante dello stesso Turco, Alessandro Sermoneta, Elena Bucaccio, Katia Colja, interpretazioni ammirevoli, misurate e in qualche caso entusiasmanti: seguite Fabrizio Gifuni nei panni di Basaglia e proverete l’ebrezza che potevano erogare mostri sacri come Alec Guinness o Peter Sellers. Attendiamo smentite. Niente a che vedere con la qualità alla quale ci ha abituati la fiction, qui siamo a casa del miglior cinema italiano, è un nuovo standard. PAZIENTI TRITURATI La vicenda inizia con un «a-prescindere» stravagante e niente realistico: Franco Basaglia dichiara il suo amore a Franca Ongaro - ancillare nello svolgimento cinematografico dei fatti ma per nulla a rimorchio nella vita vera, non si può aver tutto - e da una finestra veneziana si tuffa in Canal Grande, lei lo segue. Matafora, va bene. Poi, il film riesce miracolosamente a destreggiarsi in un groviglio di situazioni, personaggi, episodi che seguono e rincorrono a grappolo gli spostamenti dello psichiatra da un manicomio all’altro. Quindi, vite di pazienti istituzionalizzati e triturati così come prescriveva la pratica terapeutica prima che Laing, Foucault, Basaglia squarciassero il sipario pazientemente tessuto dal potere su queste realtà atroci. Una «Margherita» - finita da ragazza nel tritacarne della «buona scienza» - da incanto, grazie alla bravura di Vittoria Puccini, denuda il percorso che portava all’esclusione e alla segregazione. Ma tutto il film segue un impianto didascalico che tuttavia non appesantisce la dinamica drammaturgica: serve a capire molti passaggi cruciali della storia di Franco Basaglia. Il modo in cui viene estromesso dalla carriera universitaria, il suo rapporto conflittuale con le istituzioni, la fiducia nel «fare», la teoria e la pratica del convincere. Ma anche la politica - Franco Basaglia era un «compagno» oltre che uno scienziato - e l’Italia di allora. Il suo arrivo a Trieste e il suo lavoro di smantellamento dell’ospedale psichiatrico, la creazione di una rete di servizi territoriali superando la diffidenza della popolazione, l’incessante collaborazione di formidabili psichiatri (da Rotelli a Dell’Acqua)e di altrettanto formidabili infermieri per far sì che si realizzasse la sola grande rivoluzione che l’Italia possa contare nel suo dopoguerra. Il ruolo decisivo del Pci, quello non meno importante dei radicali, l’allargarsi su scala planetaria della fama dell’esperienza triestina. La legge che abolì i manicomi (la 180 del ‘78), il passaggio di Basaglia nella complessa realtà romana, la sua morte prematura e raggelante (1980). Nessuna scorciatoia epica, solo fatti, rinominati ma semplicemente veri, accaduti. Per questo, alcune scene possono risultare forti, impegnative ma conviene guardare senza chiudere gli occhi. «Ci pensavo da tempo - racconta il regista - mi pareva un’impresa quasi impossibile, ma devo ringraziare il coraggio di Claudia Mori che ha deciso di produrre una scommessa così impegnativa. Franco Basaglia per me era un mito, la sua presenza andava ben oltre l’ambito psichiatrico, ho cercato di far parlare i fatti, i personaggi che lo hanno circondato». Fabrizio Gifuni riflette: «In questo film viaggia un messaggio nettamente in controtendenza rispetto alla cultura oggi egemone: l’esperienza di Basaglia dice che cambiare è possibile, che si può fare se si sta insieme, se si lavora insieme, se si libera il nostro cervello». tjop@unita.it

27 gennaio 2010 pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 42) nella sezione "Culture"

giovedì 21 gennaio 2010

SINTESI dell'incontro di martedì 19 gennaio '10 Massimo Minà

SINTESI dell'incontro di martedì 19 gennaio '10
Il nostro incontro, il terzo per me, inizia con la consuetà naturalità
con la quale delle persone che si conoscono, chi più chi meno, si danno
appuntamento in un luogo amichevole per parlare e ascoltarsi a vicenda.
Ognuno arricchisce l'agenda dei temi del gruppo dando il suo contributo,
esponendo il proprio punto di vista, la sua esperienza.
E'questa eterogeneità che consente il sorgere di interessanti
spunti di riflessioni; spunti che magari nella propria solitudine sono
difficili da individuare, visto che molto spesso capita di guardare
in una sola direzione.
Nel ritrovarsi dopo una settimana è naturale raccontarsi cosa nei sette giorni
passati ci ha colpito, sia positivamente che negativamente; al riguardo, un
punto condiviso da tutti i partecipanti è proprio il potere che spesso noi
diamo ad altre persone di farci potenzialmente del male, di ferirci nei nostri
sentimenti. Allora sorgono domande interessanti, quali:
"perché diamo questo potere?"; "Cos'è che ci fa star male?".
Il gruppo non pretende di fornire delle risposte, quasi fossero ricette, a
queste e altre domande; ma già il fatto che queste domande emergano è
sicuramente un passo avanti per tutto il gruppo, che si arrichisce di nuovi
elementi per riflettere, anche al di fuori dell'occasione in cui il gruppo si
riunisce.
Sono domande che stimolano riflessioni con se stessi, con il
proprio io. Sta al singolo lavorarci sopra, trovare una riposta plausibile e,
magari, con il tempo, condividerla con il gruppo stesso.
Viene sottolineato, per esempio, che quando si vive un periodo di particolare
fragilità, le parole e i gesti degli altri hanno pesi differenti rispetto al
solito, e differenti sono anche le nostre reazioni; ci si lascia condizionare
dalle parole ritenendole un giudizio quando magari l'altro sta solo cogliendo,
in quel
momento, un aspetto che noi, per varie ragioni, non stiamo cogliendo o che
inconsciamente non ci piace. E da qui sorgono nuove questioni.
Cosa ci piace e cosa non ci piace di noi?
Che aspettative abbiamo?
A volte una rabbia in sottofondo che si può provare nasce
proprio da queste domande, a cui non vogliamo dare risposta, o la cui risposta
non vogliamo accettare, sebbene sappiamo qual'è.
Il gruppo spinge a questo tipo di riflessioni, che sono forse quelle
che più volentieri nella vita di tutti giorni si tende a non affrontare o
a rimandare, chiudendole in un cassetto.
Parlarne fa un gran bene, perché altrimenti non si spiegherebbe come mai dopo
il commiato con il gruppo non si vede l'ora che sia di nuovo martedì.

giovedì 14 gennaio 2010

QUANDO HO COMINCIATO AD AMARMI DAVVERO

"Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che la sofferenza e il dolore emozionali sono solo un avvenimento che mi dice di non vivere contro la mia verità. Oggi so che questo si chiama AUTENTICITÀ.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito com’è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri, pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta, anche se quella persona ero io. Oggi so che questo si chiama RISPETTO PER SE STESSI.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di desiderare un’altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere. Oggi so che questo si chiama MATURITÀ.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre e in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene. Da allora ho potuto stare tranquillo. Oggi so che questo si chiama RISPETTO PER SE STESSI.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro. Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi. Oggi so che questo si chiama SINCERITÀ.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato da tutto ciò che non mi faceva bene: cibi, persone, cose, situazioni e da tutto ciò che mi tirava verso il basso, allontanandomi da me stesso. All’inizio lo chiamavo “sano egoismo”, ma oggi so che questo è AMORE DI SE’.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di voler avere sempre ragione. E così ho commesso meno errori. Oggi mi sono reso conto che questo si chiama SEMPLICITÀ.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono rifiutato di continuare a vivere nel passato e di preoccuparmi del mio futuro. Ora vivo di più nel momento presente, in cui TUTTO ha luogo. È la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo PERFEZIONE. Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che il mio pensiero può rendermi miserabile e malato.

Ma quando ho chiamato a raccolta le energie del mio cuore, l’intelletto è diventato un compagno importante. Oggi a questa unione do il nome di SAGGEZZA DEL CUORE.

Non dobbiamo continuare a temere i contrasti, i conflitti e i problemi con noi stessi e con gli altri, perché perfino le stelle a volte si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi.
Oggi so che QUESTA È LA VITA!"

(Charles Chaplin)

mercoledì 13 gennaio 2010

Percorso di un gruppo

Sono le 21:00, iniziano ad affacciarsi all’appuntamento, persone già incontrate le volte precedenti.
Ci aspettiamo come amici al bar per respirare calore umano, confrontarci su una settimana trascorsa.
Il suono della voce di alcuni è già familiare. Una piccola comunità che ha voglia di incontrarsi, parlare, rivedere insieme i percorsi intrapresi.
C’è Nanni che col suo fare amichevole, ci mette a nostro agio e un po’ d’ironia inizia a scaldare un dialogo che per alcuni, nella solitudine, aveva lasciato qualche timore nel cuore.
Per noi è una gioia accogliere i nuovi membri. Il loro esordio è la “curiosità” , si dice… ma è il bisogno di comprendere, comprender(si).
Quando si discute di fronte al proprio Io, ritirati nel proprio mondo, condito da stress, aspettative e paure, tutto ci appare come un groviglio di pensieri che arrivano a pensarci.
E’ con gli altri che pian piano questi grovigli vengono srotolati nei diversi fili della nostra esperienza vissuta, così da permetterci di vederne nitidamente le trame.
Il confronto ci permette non solo di comprendere quanto naturale sia avvertire dei malesseri quando ci allontaniamo da noi stessi, quando ci imponiamo degli ideali, rischiando di non vivere i nostri giorni, passo dopo passo.
La società, spesso, c’impone un percorso, ci omologa, tanto che chi non si sente adeguato a percorrerlo si sente diverso, perdente: “s’inciampa”.
Insieme, abbiamo compreso quanto, molto spesso, ci mortifichiamo la vita, addossando agli altri, sensazioni sgradevoli che riflettendo partono da noi.
Il dialogo con se stessi alla luce del confronto con gli altri, ci porta a osservare in maniera più chiara, dinamiche che, spesso, ci sfuggono quando a prevalere sono emozioni inespresse.
E’ bello poter rivivere e soffermarsi sulle emozioni che emergono dalle pause, dai sospiri, dalle voci, sofferenti, scherzose, imbarazzate, amichevoli ma così umane, così vere da sentirsi, alla fine di ogni incontro, sollevati, arricchiti, motivati.
Aspettiamo sempre più gente che possa condividere insieme a noi questa stimolante esperienza, consapevoli di quanto possa risultare utile e piacevole.

da G,Todde Ed Frassinelli

"E Giulia mi faceva dimenticare i miei dolori perchè i suoi erano anche più forti dei miei.E io mi sentivo di sorreggerla.E forse è così che si mantiene la specie, con una catena di aiuti...io sono sorretto e io sorreggo."

lunedì 11 gennaio 2010

L’Auto-Mutuo Aiuto (AMA)

Per descrivere cosa sia l’Auto-Mutuo Aiuto userò le definizioni che ne danno due esperti:

* la Dott.ssa Barbara Rossi, psicologa – psicoterapeuta (www.terapiedigruppo.info/curriculum.htm)
* e il Dott. Gianni Lanari, psicologo e psicoterapeuta (www.psicoterapie.org/giannilanari.htm).

“Quando si parla di gruppo Auto Mutuo Aiuto (A.M.A.) si intende una categoria piuttosto complessa che comprende gruppi con caratteristiche differenti. Forse ci si riferisce a distinzioni che di primo acchito balzano più agli occhi dei tecnici, ma sicuramente il parteciparvi fa sentire ben presto la differenza tra gruppo e gruppo, clima e clima, ecc.

La distinzione certo più significativa riguarda la presenza o meno di un facilitatore, che noi auspichiamo come garante del lavoro che si va svolgendo. Resta inequivocabile che il gruppo A.M.A. è innanzitutto un gruppo che si crea per fornirsi reciproca assistenza tra persone che hanno un problema in comune. In America sono una realtà ormai diffusa e praticata, come la psicoterapia, ma anche in Italia sono sempre più richiesti, come risposta a forme di disagio e malessere non raggiungibili con altre forme più tradizionali di cura.

L'idea A.M.A. è nata con gli Alcoolisti Anonimi, ma è funzionale l’utilizzo di tale modello con persone aventi a che fare anche con altri disagi, ad esempio i disturbi d'ansia (attacchi di panico, fobie, etc.), il gioco d'azzardo, le malattie tumorali, le cardiopatie, i problemi di coppia, l’essere separato, divorziato e/o vedovo, l'esser donne che amano troppo, la difficoltà a realizzarsi sentimentalmente, la disoccupazione, l'essere il familiare di un paziente malato, la situazione di ex carcerato, di ex paziente psichiatrico, la tossicodipendenza, l'esser partner di tossicodipendenti, la depressione, la solitudine, i disturbi sessuali, i figli con handicap, i disturbi alimentari, etc.

Lo scopo essenziale del gruppo di auto mutuo aiuto è di dare, a persone che vivono in situazioni simili, l’opportunità di condividere le loro esperienze e di aiutarsi a mostrare l’uno all’altro come affrontare i problemi comuni. L’auto aiuto è quindi un mezzo valido per assicurare ai partecipanti del gruppo sostegno emotivo. Vediamo infatti che all’interno del gruppo ciascuno sforzo individuale teso alla risoluzione di un proprio problema diventa contemporaneamente sforzo per risolvere un problema comune.

Ciascuno riceve aiuto e contemporaneamente dà aiuto. Si verifica una sorta di effetto per cui chi dà aiuto, in realtà ne riceve e chi cerca di modificare una persona, in realtà lavora su se stesso nel rapporto con l'altro. Il fatto che poi i partecipanti condividano il medesimo problema permette che l’aiuto scambiato sia sentito come maggiormente efficace. E’ come se tali gruppi mettessero l'accento sull’intollerabilità del destino comune, spingendo così all’azione concreta per la soluzione dei problemi. Si acquisiscono così specifiche informazioni riguardanti soluzioni pratiche apprese dall’esperienza diretta, che di solito non sono ricavabili né dai libri, né dagli operatori professionali, né dalle istituzioni assistenziali.

I membri del gruppo si ritrovano quindi inseriti in una sorta di piccolo sistema sociale in cui smettono di essere dei portatori di qualche disagio e diventano invece membri di una rete quasi familiare. I gruppi di auto mutuo aiuto, pur costituendo delle ottime iniziative di supporto, non sono però da considerarsi sostitutivi di una adeguata psicoterapia individuale o di gruppo, nella quale l’esperto, non si limita al ruolo di facilitatore, ma assume un ruolo terapeutico diretto, volto al miglioramento della qualità della vita, potendone diventare protagonisti”.

L’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità) definisce l’auto-mutuo-aiuto (A.M.A.) come l’insieme di tutte le misure adottate da figure non professioniste per promuovere, mantenere o recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità.
L’AMA è, pertanto, considerato come uno degli strumenti di maggiore interesse per ridare ai cittadini responsabilità e protagonismo, per umanizzare l’assistenza socio-sanitaria, per migliorare il benessere della comunità.

Di seguito vengono riportate le caratteristiche principali del gruppi di Auto-Mutuo Aiuto:

1. Condividono le proprietà dei piccoli gruppi: un numero ristretto di partecipanti (solitamente 10 persone) facilita l’interazione tra i soggetti, l’espressione dei sentimenti, la nascita e lo sviluppo di amicizie e relazioni profonde;
2. Sono centrati su un problema e organizzati in relazione a specifici problemi;
3. I membri del gruppo tendono ad essere dei pari: è il fatto di vivere, o di aver vissuto, una stessa condizione che definisce l’appartenenza al gruppo;
4. Condividono obbiettivi comuni;
5. L’azione è azione di gruppo: l’energia e la forza che il gruppo è in grado di esprimere, sono sicuramente maggiori e più significative delle possibilità che ogni singolo partecipante ha a disposizione per la soluzione del problema;
6. Aiutare gli altri è una norma espressa dal gruppo: ognuno, con la propria esperienza e competenza, attraverso il confronto e la condivisione, trae aiuto per sé e per gli altri;
7. Il gruppo è democratico: ogni decisione, cambiamento, regola, viene formulata, discussa e accettata democraticamente;
8. La comunicazione è di tipo orizzontale: non ci sono modelli strutturati di comunicazione: ognuno esprime liberamente il proprio pensiero, rispettando gli altri e senza accentrare su di sé la discussione;
9. Il coinvolgimento è personale: ogni persona decide autonomamente se e come prendere parte al gruppo. Non è una decisione imposta da altri, partecipare al gruppo volontariamente aumenta la sicurezza nelle proprie capacità di scelta ;
10. La responsabilità è personale: ogni persona è protagonista del cambiamento che vuole ottenere, la persona stessa è la prima risorsa per sé e per il gruppo;
11. L’orientamento è all’azione: le persone imparano e cambiano facendo. Uno degli scopi dei gruppi è quello di sperimentare nuovi stili di vita e di comportamento, nuovi modi di sentire e trasmettere i propri vissuti. Attraverso gli sforzi ed i successi conseguiti e riconosciuti nel gruppo, la persona ha la possibilità concreta di aumentare la propria autostima e di credere nelle proprie risorse.

Generalmente gli obiettivi dei gruppi di Auto-Mutuo Aiuto sono:
- Aiutare i partecipanti ed esprimere i propri sentimenti.
- Sviluppare la capacità di riflettere sulle proprie modalità di comportamento.
- Aumentare la capacità di riflettere sulle proprie modalità di comportamento.
- Aumentare le capacità individuali nell’affrontare i problemi.
- Aumentare la stima di sé, delle proprie abilità e risorse, lavorando su una maggiore consapevolezza personale.

PRONTUARIO DEL TIPO DI APPROCCIO A.M.A.:
Chi ha il problema è una persona portatrice di risorse;
Si enfatizzano le risorse, la salute, il sentirsi bene;
Enfasi sulla fiducia, la volontà, l’autocontrollo;
Si enfatizzano i sentimenti e effetti concreti ed immediati;
Tendenza alla estemporaneità e alla spontaneità;
Il cambiamento di un individuo è in un contesto;
Si costituiscono strategie basate sulla storia dei singoli.

La psicoterapia con Internet

Paolo Migone



E' un luogo comune oggi ribadire che Internet sta rivoluzionando molti nostri modi di comunicare, e anche di vivere, con ripercussioni non del tutto facilmente prevedibili. Il world wide web (www, che letteralmente significa "rete grande quanto il mondo") sta gradualmente penetrando in ogni anfratto della nostra vita, trasformandoci mano a mano che essa stessa si trasforma e si perfeziona per meglio rispondere alle più svariate esigenze. Come è noto, vi è anche chi ha paragonato la portata di questo fenomeno a quella dell'avvento rivoluzionario della stampa.

In questa sede voglio fare solo alcune riflessioni molto specifiche su una delle tante potenzialità di Internet, quella della psicoanalisi o della psicoterapia on-line, cioè tramite Internet, quindi a distanza. La psicoterapia con Internet viene chiamata anche E-Psychoterapy ("psicoterapia elettronica"), un fenomeno che sta rapidamente prendendo piede (vengono aperti sempre più siti Internet di counseling e psicoterapia on-line, progettati studi controllati in centri di ricerca universitari [tra i tanti, vedi Caroppo et al., 2001], ecc.). Internet infatti consente non solo di collegarsi a basso costo con un terapeuta che può vivere in ogni parte del mondo (col prezzo di una telefonata urbana, anzi inferiore dato che la connessione al provider in genere costa meno - e, per chi ha un abbonamento, senza costi aggiuntivi rispetto a quelli della linea telefonica già normalmente utilizzata, quindi gratuitamente). Si dirà che questa non è una novità, perché già col telefono questo è possibile, seppur con costi leggermente superiori, e non a caso negli Stati Uniti si incominciò a discutere della "telephone analysis" fin dalla metà del 1900 (vedi ad esempio Saul, 1951, e, per review recenti, Lindon, 1988; Sleek, 1997; Zalusky, 1998; Aronson, 2000; Richards, 2001; Leffert, 2003; ecc.), considerata utile sia per superare certe resistenze o impasse dell'analisi, sia per rimpiazzare sedute mancate, ridurre i costi e i disagi degli spostamenti soprattutto per grandi distanze geografiche, nel caso di handicap che riducono la locomozione, o quando il paziente (o l'analista) si trasferisce in una città lontana e si vuole continuare un processo analitico già avviato. Quello che Internet offre in più è la possibilità di aggiungere il video in tempo reale (tipo video-conferenza, o tramite programmi ormai molto diffusi come Skype) in modo da simulare, con la cosiddetta "realtà virtuale", esattamente la seduta (c'è chi ha simulato persino la sala d'aspetto dell'analista). Con l'audio e il video in tempo reale è possibile sfruttare anche il timing degli interventi, i silenzi, gli orari delle "sedute" e così via, con entrambi i partner virtualmente presenti come fossero assieme in una stanza, potendo quindi rispettare tutti i dettagli del rituale terapeutico - e per quanto riguarda la privacy, si lavora a programmi sempre più sofisticati per criptare le comunicazioni (si pensi solo a quelli usati dalle banche telematiche) e a produrre appositi codici etici (vedi ad esempio American Psychological Association, 1997). Si può dire che la psicoterapia in rete faccia parte del capitolo più generale della telepsichiatria o della telemedicina (telemedicine), sperimentata da anni soprattutto in Nord America e in Australia per ridurre i costi dovuti alle grandi distanze geografiche (Dongier, 1986; Preston et al., 1992; Baer et al., 1995; Kaplan, 1997; Brown, 1998; Gammon et al., 1998; Gelber, 1999; Zaylor, 1999; ecc.).

Un'altra possibilità è il dialogo scritto, tramite chat ("chiacchierata" in tempo reale, con vari programmi, ad esempio con ICQ [un acronimo che si pronuncia "I seek you", cioè "Io cerco te"]) o E-Mail ("Electronic-Mail", posta elettronica in tempo differito), che per la verità è attualmente la modalità più utilizzata sia per scopi professionali che per il tempo libero dato che non comporta ulteriori attrezzature oltre a quelle di un qualunque personal computer. Una modalità molto utile e diffusa è costituita dalle discussion list, da una parte, e dai gruppi di self-help (auto-aiuto), dall'altra, dove più persone si confrontano su un tema comune, ciascuno potendo intervenire oppure solo "ascoltare" e trarre quindi beneficio (vedi ad esempio Houston et al., 2002).

Vale la pena però di fare alcune riflessioni sulle diverse modalità di linguaggio scritto e sulle differenze col linguaggio parlato (Migone, 1998b). La comunicazione tramite E-Mail (la cui enorme diffusione ha fatto parlare di un grande ritorno dell'epoca degli epistolari, che è terminata dopo l'avvento del telefono) ha in comune con le lettere scritte a mano o a macchina in realtà solo un aspetto, il fatto che si deve mettere per iscritto quello che si vorrebbe dire, inducendo, a causa della lentezza della comunicazione, una diversa disposizione riflessiva ed emotiva (questo vale soprattutto con le lettere scritte a mano, perché la scrittura tramite tastiera è molto più rapida di quella a mano - è possibile comunque, grazie al word processing, rivedere il testo e cancellare per sempre gli "errori", così come del resto era sempre stato possibile appallottolare e buttare nel cestino una lettera appena scritta, anche se quest'ultimo è un metodo meno veloce). Se vogliamo, il primo esempio storico ante litteram di "psicoanalisi per via epistolare" fu quello tra Freud e Fliess, come vari storici della psicoanalisi hanno fatto notare. La grossa differenza che permane tra la E-Mail e la posta di superficie (detta anche Snail-Mail, cioè "posta lumaca") è innanzitutto la rapidità di trasmissione, che è in tempo reale per la E-Mail (la risposta può arrivare dopo ore o anche minuti, il tempo per il nostro interlocutore di scriverla) e molto lenta per la posta di superficie (giorni). Ma una differenza ancor più importante è che nelle E-Mail, trasmettendo in caratteri ASCII, esistono meno possibilità di comunicare altri significati oltre a quelli legati al contenuto stesso della comunicazione; viene cioè privilegiato al massimo il contenuto e viene ridotta al minimo la comunicazione non verbale. Non solo non si vede l'espressione del volto e non si odono le varie gradazioni del tono della voce (aspetti questi in comune con gli epistolari), ma anche non vi sono corsivi e sottolineature (per la verità nei programmi di posta elettronica più evoluti queste cose sono possibili), né calligrafie personali oltre alla possibilità di usare le lettere maiuscole (per enfatizzare alcune parole come fossero gridate), alcuni simboli (visi che sorridono o esprimono tristezza, smorfie, ecc., "disegnati" utilizzando i due punti, il punto e virgola, le parentesi e così via, secondo il "vocabolario" delle cosiddette emoticons) e altri piccoli accorgimenti concessi dalla cosiddetta netiquette, cioè dal galateo della rete.

Perché la psicoterapia con Internet può essere interessante?

Fatta questa premessa, ci si può chiedere quale può essere il motivo di interesse verso la psicoterapia o la psicoanalisi con Internet. In realtà il mio interesse non è, come molti possono pensare, nei confronti della psicoterapia on-line di per sé, anzi, essa in quanto tale mi ha sempre interessato poco o nulla, pur avendola praticata. Quello che ha sempre stimolato il mio interesse, direi mi ha quasi affascinato, è il modo con cui vedevo certi colleghi affrontare e discutere la questione della psicoterapia o della psicoanalisi on-line. Mi interessava il loro modo di affrontare questo "nuovo" oggetto, il loro modo di teorizzare le somiglianze o differenze con la psicoterapia tradizionale (quella, se così si può chiamare, off-line), il loro dichiararsi favorevoli o contrari alla terapia con Internet e perché. Quello che insomma mi interessava veramente era ciò che stava dietro a questo fenomeno, nel senso che per me la psicoterapia on-line era estremamente interessante perché costringeva a riflettere su quello che essa non era, cioè sulla psicoterapia in generale, fuori da Internet. Il modo con cui veniva affrontata la psicoterapia on-line metteva a nudo, a volte impietosamente, il modo con cui veniva concepita e praticata la psicoterapia non on-line, ad esempio le sue stereotipie, la sua tecnica ritualizzata o ossificata (questa sì "senza teoria", cioè senza vita, in cui il legame tra teoria e tecnica era andato perduto), e quindi una concezione del setting che comportava errori tecnici anche nella psicoterapia non on-line (tanti sono gli esempi in cui viene discussa la psicoterapia on-line in modo stereotipato e a volte autocontraddittorio, in cui si procede per asserzioni non dimostrate o dando per scontate delle regole formali della psicoterapia senza interrogarsi in modo coerente sul loro senso all'interno della teoria della tecnica: interessanti ed esemplificativi in questo senso sono i lavori di Carta, 2005, e Di Maria & Formica, 2005).

Il mio interesse per la psicoterapia con Internet ha dunque queste origini. In particolare, le riflessioni che esporrò sono nate all'interno di una animata discussione avvenuta per E-Mail nel novembre 1998 tra i membri della redazione di una rivista telematica di cui allora facevo parte, in preparazione di un libro sulla "Psichiatria on line" (Bollorino, 1999). In quel dibattito espressi le ragioni del mio interesse per la psicoterapia on-line, che erano appunto quelle che ho detto prima, e mostrai come la psicoterapia on-line non sia altro che una cartina di tornasole del modo di ragionare sulla psicoterapia tout court, del modo di concepire la teoria delle tecnica in generale. Incontrai molte reazioni critiche, e una difficoltà enorme a ragionare con loro sulla teoria della tecnica, come se - questa almeno fu la mia sensazione - questi colleghi fossero condizionati da pregiudizi che li accecavano di fronte alle osservazioni più semplici (cosa questa curiosa, se si pensa che quel gruppo di colleghi, che può considerato un campione rappresentativo di tanti altri colleghi, era addirittura più sofisticato e più aperto al nuovo, se non altro per il comune interesse verso il mondo di Internet).

Adesso, come allora, ritengo che non vi sia nessuna specificità della psicoterapia con Internet, più di quanto non ve ne sia per le psicoterapie praticate in setting "eterodossi" come nuove frontiere che hanno messo alla prova la coerenza intera della cosiddetta "tecnica classica" nel suo sviluppo storico (ma anche, va precisato, più di quanto non ve ne sia per la psicoterapia che pratichiamo tutti i giorni, dove il paziente - etichettato più o meno "borderline" o con altre diagnosi - riesce sempre a spiazzare e a confondere l'analista dotato delle più buone intenzioni e uscito dalla "migliore" scuola psicoanalitica). Certe autocontraddizioni, certe modalità (a mio modo di vedere, errate) di concepire il lavoro con i pazienti, a prima vista possono non emergere chiaramente se ci si appoggia a un modo tradizionale di lavorare, ma saltano subito agli occhi appena si è messi di fronte a una situazione nuova, dove chi non ha gli strumenti concettuali adeguati non può più mascherarlo, perché ad esempio non riesce ad avere la necessaria elasticità tecnica a causa delle categorie concettuali in cui è imprigionato, che dipendono dal modo in cui gli è stata insegnata la psicoterapia.

A questo proposito, scrisse più di mezzo secolo fa su Psychoanalytic Quarterly Leon Saul (1951), un analista che si chiedeva perché mai non potesse essere utilizzato il telefono in analisi:

«Tutto il pensiero è limitato dall'inerzia. Noi pensiamo nel modo con cui ci hanno insegnato a pensare. Nuove idee, nuovi atteggiamenti o approcci incontrano sempre resistenze. Questo è particolarmente vero per la psicoanalisi, dove, dato che l'analisi personale mobilizza la sottomissione inconscia e la identificazione narcisistica coi genitori, l'autorità di chi insegna tende ad essere spropositatamente grande, e impone un preciso dovere di trasmettere una prospettiva autenticamente accademica e scientifica. Questa è una curiosa ironia per una scienza nata dalla devozione di un uomo alla realtà nonostante il peso di ogni sorta di autorità. Alla luce di queste considerazioni, ci si chiede se l'idea di usare la moderna tecnologia del telefono, come una aggiunta alla tecnica psicoanalitica, incontrerà una scandalizzata resistenza, o se la maggior parte degli analisti sono già molto avanti nel loro pensiero e anticiperanno la sperimentazione della comunicazione televisiva se e quando essa diventerà possibile (p. 287). (...) Ogni procedura tecnica è solo un mezzo per uno scopo, e il suo uso deve dipendere dalla base del razionale di tutto il trattamento: la accuratezza psicoanalitica nella comprensione del paziente» (Saul, 1951, p. 290, traduzione mia).

Queste parole suonano profetiche. Saul in quel lavoro parlava, tra le altre cose, dell'utilità di usare il telefono con una paziente che non riusciva a reggere la intensità delle sedute, e con la quale si era accorto che al telefono - per motivi di cui sarebbe lungo parlare qui - riusciva invece a comunicare e ad elaborare determinati aspetti transferali rendendo così possibile il loro superamento e la ripresa delle sedute. L'uso del telefono, in questo caso, rientrava perfettamente nei criteri che due anni dopo, nel 1953, Kurt Eissler proporrà per sistematizzare in una teoria coerente la introduzione di modificazioni tecniche (da lui chiamate "parametri") alla tecnica psicoanalitica di base. Ed è proprio con la teorizzazione di Eissler, che diventerà un inevitabile punto di riferimento nel dibattito sulla teoria della tecnica, che voglio iniziare queste mie riflessioni sulla psicoanalisi con Internet, e precisamente raccontando un episodio che mi è riaffiorato alla memoria.

E' possibile la psicoanalisi tramite Internet?

Una volta Eissler, ad un convegno tenuto alla Cornell University di New York nel 1983 in occasione del trentesimo anniversario del suo classico articolo del 1953 sul "parametro" (non ricordo bene chi fossero gli altri oratori, mi sembra Brenner e Arlow), disse che secondo certuni qualcosa di vero poteva esserci nelle critiche che alcuni gli avevano mosso, nella misura in cui, ad esempio, "nessuno era ancora riuscito a condurre una psicoanalisi col computer o passando al paziente dei bigliettini contenenti solamente le interpretazioni".

Per comprendere appieno questa affermazione, può essere utile accennare brevemente a quell'articolo. Com'è noto, il classico di Eissler del 1953 era stato scritto a metà del secolo, in un periodo storico di grande fulgore della psicoanalisi negli Stati Uniti, in cui si assisteva a un rapido aumento del numero di pazienti, anche con patologie gravi, che si rivolgevano al trattamento psicoanalitico. Presto gli analisti si resero conto che la tecnica "classica" non poteva essere applicata a tutti, e che erano necessarie delle modifiche a seconda della gravità della patologia. La tecnica classica prevedeva infatti l'uso privilegiato della interpretazione verbale, cercando di minimizzare tutti gli altri fattori per così dire "spuri" o "inquinanti" il setting, quali rassicurazioni, consigli, variazione della durata e del numero delle sedute, ecc. L'analista doveva restare il più neutrale possibile, seduto dietro al lettino in modo tale da ridurre al minimo la sua influenza sul paziente, e limitarsi a trasmettere verbalmente le interpretazioni, ritenute il fattore curativo par excellence della psicoanalisi. E' in questo contesto che si inserisce l'articolo di Eissler, un analista ortodosso molto autorevole, noto anche come strenuo difensore di Freud di fronte alle critiche che di volta in volta gli venivano mosse, e che più tardi verrà anche nominato Direttore dei prestigiosi Freud Archives (vedi Migone, 1984, 1999b). In quell'articolo, Eissler sistematizzò a livello teorico il problema delle indispensabili modificazioni del setting alla luce delle acquisizioni teoriche della Psicologia dell'Io (che proprio in quegli anni vedeva la sua massima espansione), cioè dell'esigenza sempre più sentita di una maggiore considerazione del punto di vista adattivo e delle difese. Egli definì "parametro" ogni cambiamento della tecnica standard (la quale ad esempio era definita a "parametro zero", cioè senza modificazioni), e propose che fosse legittimo definire una terapia ancora "psicoanalisi" quando l'introduzione di un parametro si basa sui seÐguenti quattro criteri: 1) deve essere introdotto solamente quando sia provato che la tecnica di base non è sufficiente (in presenza ad esempio di un "deficit dell'Io" che non permetterebbe al paziente di reggere la tecnica di base); 2) non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile; 3) deve condurre alla sua autoeliminazione; 4) le sue ripercussioni sul transfert non devono mai essere tali che non possa essere in seguito abolito dall'interpretazione. Eissler dunque, ribadendo per la psicoanalisi il valore ideale della tecnica "classica" (praticamente mai raggiungibile nella realtà, e di questo era ben consapevole, ma tuttavia utile come obiettivo euristico), ammise l'utilizzo di parametri ma a patto che fossero ridotti al minimo e che in qualche modo potessero in seguito rientrare all'interno del processo interpretativo (prova questa di una modificazione strutturale, dato che era stato riparato quel "deficit dell'Io" che prima aveva reso indispensabile l'introduzione del parametro). Il parametro, in sostanza, può essere concepito come un "agito", una "esperienza correttiva" non interpretata; come ho scritto in un altro lavoro, dietro a questo concetto Çnon vi è altro che la problematica - estremamente importante per chi è interessato a fare terapia, cioè a operare cambiamenti psicologici "strutturali" nei pazienti - del rapporto tra azione e parola, tra comportamento e mentalizzazione, o, se vogliamo, tra corpo e mente, cioè la possibilità di trasformare un sintomo, un comportamento, e portarlo sotto controllo del soggetto attribuendogli un significatoÈ (Migone, 2005, p. 354).

Ci si può chiedere a questo punto come mai ho iniziato queste mie riflessioni sulla psicoterapia con Internet accennando alla concezione del parametro di Eissler. Il motivo è che, ironicamente, e contrariamente allo scetticismo dei tanti psicoanalisti nei confronti della terapia con Internet, seguendo la teoria classica di Eissler parrebbe che una psicoterapia come quella in rete, basata essenzialmente sulla comunicazione per certi versi "impersonale" tra paziente e terapeuta, risponda ai criteri addirittura di una psicoanalisi, da molti ritenuta superiore o più "profonda" delle altre psicoterapie. Come risolvere questa apparente contraddizione?

Affrontare adeguatamente questa problematica implicherebbe addentrarsi nelle vicissitudini della storia della teoria della tecnica psicoanalitica nel corso del XX secolo, per cui in questa sede sarà possibile fare solo alcuni brevi cenni (per i necessari approfondimenti rimando ad altri lavori: Migone, 1991, 1995a capitoli 1 e 4, 1995b, 1998a, 2000, 2001).

Ritengo che la cautela nei confronti della psicoterapia con Internet possa essere spiegata col fatto che negli ultimi tempi vi è stata una crescente presa di distanza, più o meno esplicita, nei confronti di un certo modo di intendere il modello classico, basato sulla anonimità del terapeuta, su quella che potremmo chiamare "personectomia" dell'analista, modello che pare estremizzato in modo quasi caricaturale appunto dalla psicoterapia con Internet. Il fenomeno diffuso della psicoterapia on-line, insomma, tra le altre cose ripropone questa problematica interna al dibattito psicoanalitico e ci dà qui l'occasione di riprenderla brevemente in esame.

Seguendo la logica di Eissler, se una terapia con parametri (cioè con variazioni del setting a seconda dei bisogni del paziente, con interventi legati alla "persona" del terapeuta che in modo complesso "modula" l'aspetto tecnologico del trattamento) è indicata per quei pazienti che, a causa della struttura deficitaria del loro Io, non reggono un tipo di setting limitato solo alla comunicazione delle interpretazioni, dovremmo forse dedurre che la psicoterapia in rete può essere indicata per quei pazienti che hanno un Io intatto (peraltro molto rari), o che comunque si collocano al livello alto della psicopatologia (ad esempio solo per i nevrotici lievi)? Ritengo che non sia questo il modo di impostare il problema, e che la questione sia più complicata (si noti comunque qui un apparente paradosso: la psicoterapia con Internet, "tecnologica" per eccellenza, da una parte sarebbe indicata per i pazienti "più sani", e dall'altra proprio per quei pazienti "più gravi" che hanno un particolare bisogno di non entrare in contatto con la persona del terapeuta, perché ad esempio possono temere un certo coinvolgimento). E non ritengo neppure che oggi, grazie alle possibilità offerte dalla comunicazione multimediale a cui si accennava prima, la psicoterapia "virtuale" sia legittima nella misura in cui può emulare la psicoterapia "reale". Non ricordo nei dettagli la argomentazione fatta da Eissler in quel convegno del 1983 a proposito della "psicoanalisi col computer", ma non penso che sia corretto affermare che se una volta era comprensibile essere scettici verso di essa, oggi, grazie alla vasta gamma di canali comunicativi di cui è dotata, si può essere meno scettici e ritenere che la psicoanalisi con Internet potrebbe essere utilizzata anche per pazienti più gravi.

Nemmeno questo dunque, a mio parere, è il modo di impostare il problema, cioè, come ho detto prima, ritengo che la questione non sia la possibilità o meno di emulare con la realtà "virtuale", oggi permessa da Internet, la realtà "reale" dell'incontro paziente-terapeuta, laddove quest'ultima servirebbe da pietra di paragone o modello a cui avvicinarsi il più possibile. Il problema va posto in termini diversi, e precisamente occorre una riflessione sulle premesse teoriche che facevano da sfondo alla concettualizzazione di Eissler (cioè alla concezione che per brevità ho chiamato "classica"), premesse che, come si è detto, nel dibattito psicoanalitico successivo da più parti sono state discusse in modo critico. Il ragionamento di Eissler era estremamente coerente al suo interno, e tuttora il suo articolo è molto valido per quanto riguarda il ruolo del setting nella struttura logica dell'interpretazione (fondamentale, a questo riguardo, è il contributo di Codignola [1977] sulla - come recita il sottotitolo del suo libro - "struttura logica dell'interpretazione psicoanalitica"). Soprattutto Eissler in quel lavoro ha voluto toccare, come dicevo prima, l'importante questione teorico-clinica del rapporto tra parola ed azione in analisi, e il problema della mentalizzazione come garanzia dell'autonomia del paziente dall'ambiente, cioè dal parametro introdotto per ristabilire il suo equilibrio psicologico. L'aspetto della concezione sottostante alla teorizzazione di Eissler che invece ora può essere messo in discussione riguarda quello che lui chiama "modello della tecnica di base" (basic model technique), cioè da una parte l'idea che solo un tipo di setting (quello "classico") sia adatto ad evocare nel paziente quello che noi chiamiamo transfert (e per di più in modo uguale in ogni cultura, paese ed epoca storica), e dall'altra l'idea, strettamente connessa, che questo tipo di setting possa garantire all'analista una neutralità rispetto all'emergere del transfert, il quale appunto sarebbe tendenzialmente "puro" e "incontaminato" dalle influenze dell'analista. Come è stato discusso in seguito da molti autori (in primis Gill, 1982, 1983, 1984, 1993, 1994), i quali hanno un po' ripreso le intuizioni di Sullivan e della scuola interpersonalista americana esposte fin dagli anni 1920 e 1930, non è sostenibile una fede ingenua nella neutralità da parte dell'analista, anzi, credere nella neutralità può solo portare ad una maggiore influenza sul paziente perché appunto non analizzata (in quanto ritenuta inesistente).

Si veda ad esempio la critica che Gill muove alla concezione della Macalpine (1950), che è esemplare a questo riguardo. La Macalpine aveva parlato di un "setting infantile" (sedute frequenti, costanza dell'ambiente, ecc., la tecnica di base insomma di cui parla anche Eissler) che servirebbe ad evocare quel tipo di transfert che noi vogliamo analizzare. Gill fa notare una contraddizione in questa concezione: se il transfert deve essere spontaneo e incontaminato dalla influenza del presente, perché allora abbiamo bisogno di apposite misure per farlo emergere? Perché, in altre parole, dobbiamo "manipolarlo" con un "setting infantile"? Il transfert che emerge grazie al setting "classico" non sarebbe quindi una pura ripetizione del passato di fronte ad un analista che funge da specchio (blank screen) o da osservatore neutrale, ma una reazione a quel "setting infantile", sarebbe cioè un "transfert infantile" (o, se vogliamo, un "transfert classico" provocato dal "setting classico"), una reazione iatrogena, concettualmente simile all'ipnosi: niente di più lontano da quello che comunemente intendiamo per psicoanalisi (molto belle sono le pagine di Gill in cui mostra - con buona pace dell'analista "ortodosso" - come una psicoanalisi classica possa di fatto consistere in una "psicoterapia manipolatoria", mentre una terapia monosettimanale e senza lettino nella quale si analizza attentamente il transfert possa essere definita a tutti gli effetti una "psicoanalisi"). Beninteso, qui non vengono criticate tanto le regole del setting classico (che è un setting come un altro, né migliore né peggiore), quanto la implicita idea che quel setting garantisca una neutralità dell'analista, e che solo quel tipo di setting, e non altri, debba essere utilizzato per tutti i pazienti e trasversalmente alle varie culture e ai periodi storici (perché è questa la implicazione sottostante, altrimenti non sussisterebbero le regole standard, ad esempio il lettino e le quattro sedute alla settimana, tuttora prescritte dall'International Psychoanalytic Association [IPA] - anche se, naturalmente, queste regole sono più spesso sulla carta che nella realtà). Ecco perché, venendo a questo punto a mancare le giustificazioni teoriche del setting classico, Gill in modo radicale si sbarazza dei criteri "estrinseci" (lettino, frequenza settimanale, ecc.), ridefinisce quelli "intrinseci", e sposa una concezione molto allargata di psicoanalisi, attuabile nei setting più diversi (sedute a frequenza monosettimanale o addirittura variabile, setting di gruppo, emergenze, terapie brevi, servizio pubblico, pazienti più gravi e/o con terapia farmacologica, ecc.). L'importante è che l'analista di volta in volta faccia del suo meglio per fare "l'analisi del transfert" (che sarebbe meglio definire a questo punto come "analisi della relazione" - è questo l'unico fattore "intrinseco" che Gill conserva, e per di più ridefinendolo in termini "relativistici" o "interpersonali"), cioè la relazione paziente-terapeuta la quale è sempre influenzata dalle condizioni del setting, qualunque esse siano. A scanso di equivoci, occorre ribadire che qui non si sta affatto dicendo che il setting classico non va bene e che va preferito una altro setting (ad esempio senza lettino o a bassa frequenza settimanale - o, per restare nel tema di queste riflessioni, magari con Internet). Si sta dicendo semplicemente che il setting classico è un setting come un altro, e va benissimo, solo che evocherà il suo tipo di transfert. Ogni paziente infatti reagirà ad un determinato setting non secondo un modello ideale che noi riteniamo valido indiscriminatamente per tutti i pazienti, perché è il transfert stesso (cioè le precedenti esperienze fatte dal paziente) che determina il modo con cui verrà vissuto il setting stesso. Per fare un esempio volutamente schematico, se un paziente ha avuto genitori molto riservati e silenziosi forse sarà a suo agio con un analista ortodosso, mentre se i suoi genitori erano espansivi e calorosi potrebbe vivere questo analista come freddo, distaccato, o forse punitivo: è ovvio che sarebbe un errore interpretare come transfert solo quest'ultimo comportamento, e considerare "normale" (cioè come "non transfert") lo stato di non conflittualità che prova il paziente di fronte ad un analista che era riservato e silenzioso ("ortodosso"). Potrebbe anche essere che questa apparente normalità ci impedisca di illuminare un'importante area problematica di funzionamento del paziente che invece comparirebbe se questi fosse esposto ad un diverso setting, e che in questo modo potrebbe essere analizzata (per un approfondimento della concezione di Gill, con anche un dettagliato esempio clinico, rimando ai miei lavori citati prima).

Risulterà più chiaro a questo punto perché ho voluto far precedere queste mie riflessioni sulla psicoterapia on-line da questa lunga premessa sulla concezione di Eissler sul parametro e sulla revisione teorica di Gill. Se accettiamo che non vi sia più, per così dire, un "gold standard" per la psicoanalisi (inteso in termini di criteri estrinseci, cioè legato ad un tipo specifico di setting), ne consegue a rigor di logica che anche con Internet possa essere condotto un trattamento che risponde ai requisiti della psicoanalisi: attenta analisi delle manifestazioni transferali a partire dal tipo di contesto in cui avviene l'incontro paziente-terapeuta (in questo caso Internet, nelle sue varie possibili modalità), ben consapevoli che questo contesto, come qualunque altro contesto, avrà sempre una pesante influenza sul transfert stesso (nonché sul controtransfert, naturalmente), influenza che comunque dovrà essere attentamente analizzata. Con questo ragionamento, dunque, sembrerebbe giustificato l'utilizzo di Internet per la psicoterapia, e per di più per una terapia di tipo psicoanalitico.

Ulteriori riflessioni

Ritengo necessario fare alcune ulteriori riflessioni per chiarire meglio i passaggi fatti, perché è possibile che si creino fraintendimenti. Quelle che vanno analizzate meglio sono le implicazioni sottostanti al ragionamento che abbiamo fatto fino ad ora per arrivare ad una posizione che non esclude aprioristicamente l'utilizzo di Internet per la psicoterapia. Prima ho detto che molti colleghi hanno un atteggiamento critico verso la psicoterapia on-line, e ciò potrebbe essere comprensibile se si pensa agli abusi che se ne possono fare o ad un suo uso indiscriminato e magari in sostituzione della psicoterapia tradizionale (anche se, per la verità, non è chiara la motivazione all'abuso della psicoterapia on-line da parte dei terapeuti, essendo per loro più faticosa e meno remunerativa - a meno che essa non possa esserlo in una prima fase pionieristica dove alcuni sfruttano questo terreno di caccia di nuovi pazienti non altrimenti reperibili, ma presto anche questo territorio sarà molto popolato e non varrà più la regola del "chi prima arriva meglio alloggia"). Ritengo corretto essere critici verso la psicoterapia on-line, ma solo a patto che noi muoviamo la stessa critica verso la psicoterapia tradizionale, altrettanto abusata e praticata in modo "selvaggio" (qualunque cosa ciò significhi). Quello che ritengo importante sottolineare non è solo il fatto che un atteggiamento critico a priori verso la psicoterapia on-line possa nascondere un tacito lassismo verso la psicoterapia non on-line, ma anche che questo presuppone l'errato ragionamento secondo cui il fattore determinante è la forma esteriore che assume la psicoterapia (i criteri "estrinseci"), dimenticando che è il significato dell'esperienza nel suo complesso il fattore caratterizzante la psicoterapia, incluso l'intergioco tra fattori estrinseci ed intrinseci. Un tipo di ragionamento che privilegia i criteri estrinseci non può che condurre - come non mi stanco di ripetere - ad errori tecnici anche nella psicoterapia non in rete. Gli esempi a questo proposito sono innumerevoli, basti pensare all'uso del lettino: coloro che storcono il naso di fronte all'uso terapeutico di Internet possono essere gli stessi (anzi, sono gli stessi) che, in modo stereotipato, ritengono che il lettino (come qualunque altro elemento estrinseco del setting, dato che qui il lettino vale come esempio prototipico) sia essenziale per la psicoanalisi, quando di per sé esso non significa niente e quello che è essenziale è il modo con cui vengono analizzate le reazioni del paziente al lettino, così come alla sedia e a qualunque altro elemento del setting o nostro intervento (Migone, 1998a). Può portare insomma - come ha ben argomentato Galli (1988, 2002) - ad una reificazione della tecnica, quasi come se essa stessa, per così dire, potesse ergersi al rango di "teoria".

La psicoterapia on-line può essere utile non solo nei casi di grande distanza geografica tra paziente e terapeuta (Internet in questo senso è un grande vantaggio, perché, come si è detto, facilita molto in termini di spesa e di tempo), ma anche, proprio secondo la teoria del parametro di Eissler, può essere indicata nei casi in cui un determinato paziente (esempi tipici sono certe problematiche schizoidi, o anche agorafobiche e di fobia sociale) non riesca ad affrontare il contatto diretto col terapeuta, e invece riesca ad aprirsi meglio mantenendo una certa distanza emotiva che per lui è simbolizzata dalla distanza fisica della rete (cioè, usando i termini di Eissler, nel caso di determinati "deficit dell'Io"). In una fase iniziale della terapia un paziente potrebbe venire "agganciato" in questo modo (ad esempio nel caso chieda aiuto per la prima volta tramite Internet, come per E-Mail, in una discussion list o in una chat line), per fare un determinato lavoro allo scopo di superare certe resistenze che gli permettano poi di continuare la terapia in modo tradizionale, se è questa la modalità che viene ritenuta indicata o che viene scelta.

Ritengo quindi che la psicoterapia in rete possa avere una sua dignità come tecnica, proprio allo stesso modo con cui altre tecniche terapeutiche hanno una loro dignità, quali la terapia di gruppo, la terapia familiare, ecc. Anche in questi casi, infatti, rimane aperta la domanda di quale tecnica preferire e perché (se ad esempio si deve scegliere se fare una terapia individuale o di gruppo), nel senso che non è tanto importante quale è poi la nostra scelta finale, quanto il fatto che venga tenuta aperta la domanda e vengano continuamente analizzate le implicazioni transferali e controtransferali di tali scelte o preferenze (in questo senso, la scelta fatta interessa meno di quanto possa essere interessante chiedersi "perché non ne è stata fatta un'altra"). I problemi teorici e tecnici della psicoterapia con Internet sono identici a quelli della psicoterapia o della psicoanalisi "al telefono", che è praticata da decenni da molti analisti, non solo negli Stati Uniti o in altri paesi dove vi sono grandi distanze geografiche, ma in tutto il mondo, solo che in genere si tende a non parlarne, o a riferire, durante la discussione di casi clinici, solo delle telefonate coi pazienti come "incidenti" o momenti che vanno presto normalizzati per tornare al tradizionale rituale della terapia. Raramente si discute il problema della terapia a distanza attraverso la rete telefonica, e sono convinto che non viene affrontato perché una sua coerente disamina non potrebbe non avere ripercussioni sull'intero impianto teorico della psicoanalisi e sul rapporto tra teoria e tecnica (del tipo di quello fatto dall'ultimo Gill [1984], per intenderci). Il mito che possa esistere una "tecnica classica" della psicoanalisi, con le sue regole, il suo setting ben definito, ecc., rassicura molti analisti, soprattutto in un momento in cui, dopo la crisi di precedenti certezze e l'accavallarsi di teorie diverse sul mercato della psicoanalisi, il polo teorico viene vissuto come fragile per cui viene naturale aggrapparsi al polo tecnico per rassicurarsi di aver conservato l'identità perduta.

La psicoterapia con Internet potrebbe essere considerata, per certi versi, una "nuova frontiera" così come, nella storia della psicoanalisi, di volta in volta si sono dovuti affrontare nuovi problemi tecnici che hanno costretto ad una salutare messa a punto della teoria: alludo alla terapia degli psicotici (Sullivan), dei bambini (Melanie Klein), del narcisismo (Kohut), di certi disturbi di personalità (Kernberg), e poi degli adolescenti, dei gruppi, delle famiglie, dei tossicodipendenti, delle delinquenze, ecc. Come sappiamo, tutti questi territori di confine hanno prodotto un salutare ripensamento della teoria psicoanalitica, che a volte ha prodotto innovazioni che più tardi sono state generalizzate arricchendo il nostro modo di comprendere il meccanismo della terapia.

Non è tanto importante il fatto che la psicoterapia sia condotta attraverso Internet, quanto la teoria che utilizziamo per giustificarla, la nostra capacità di analizzare le motivazioni transferali e controtransferali che stanno dietro a questa scelta: forse che il paziente, oppure il terapeuta, nella loro preferenza della psicoterapia on-line esprimono una resistenza, cioè una difesa dalla psicoterapia off-line? E nel caso, perché? O forse che, viceversa, la scelta della terapia tradizionale da parte di uno o di entrambi esprime una resistenza a un aspetto della psicoterapia in rete che eventualmente sarebbe stata possibile? E così via. Questi ragionamenti non sono specifici alla questione della psicoterapia in rete, ma sono gli stessi che vengono fatti nei confronti di qualunque intervento e a proposito di qualunque modalità terapeutica (ad esempio nella scelta della terapia di gruppo, della terapia familiare, ecc., prima citate). Anche queste scelte, così come il loro opposto, possono fungere da ricettacoli difensivi, ed è l'attenta analisi di queste dinamiche quella che costituisce il fulcro del nostro lavoro. Non vi è mai un luogo sicuro su cui si possa, per così dire, riposare analiticamente (per una discussione di questa problematica, con anche esempi clinici, riferita però alla psicoterapia breve, che presenta le stesse identiche questioni teoriche, vedi Migone, 1988, 1993, 1995a pp. 51-62, 1995c, 2005). Quello che mi preme sottolineare nuovamente è che qui non si sta parlando della psicoterapia in rete in quanto tale, ma della psicoterapia tout court, cioè della logica utilizzata dal terapeuta per qualunque sua scelta tecnica. E' solo affrontando la teoria della tecnica che sta a monte che è possibile non arenarsi nei vicoli ciechi delle "tecniche", e affrontare adeguatamente la questione della psicoterapia con o senza Internet.

Vorrei fare un'ultima riflessione ancora a proposito della teorizzazione classica del setting analitico come di una condizione tutta particolare atta ad evocare determinati reazioni transferali "regressive" da sottoporre poi ad analisi, in quanto ancora una volta si può fare qui un interessante parallelismo con la psicoterapia on-line. Da più parti infatti viene sottolineato come Internet possa rappresentare un "setting" tutto particolare che, in modo specifico, evoca in molti soggetti una serie di emozioni intense, stati regressivi o cosiddetti "perversi" (si pensi alle chat lines erotiche, agli improvvisi e violenti innamoramenti in rete, o alla pedofilia, e così via). In altre parole, Internet, per vari motivi, libererebbe emozioni molto profonde, paradossalmente maggiori di quelle evocate da situazioni "normali", cioè non in Internet (Migone, 2002). A parte il fatto che a mio parere questo può essere vero per determinati individui e non per altri, cioè sarebbe un errore generalizzare questi fenomeni che sono invece relativi ad un determinato tipo di società o sottocultura, vorrei far notare che questo tipo di logica è la stessa utilizzata nel caso della tecnica analitica classica, dove si teorizza che viene utilizzato un setting particolare, ritualizzato, dotato di lettino, ecc., volto a stimolare un determinato comportamento (chiamato transfert) che si vuole far emergere ed analizzare (mi riferisco alla teorizzazione del "setting infantile" della Macalpine, 1950). Secondo questo ragionamento, la "psicoanalisi classica" e la "psicoanalisi con Internet" sarebbero omologhe (anzi, come si accennava prima, la psicoanalisi sarebbe una caricatura della psicoterapia con Internet): il transfert in un caso e le cosiddette "perversioni" dall'altro potrebbero essere i comportamenti che di proposito si vogliono far emergere, sarebbero cioè forme di "regressione" (analitica). Come penso risulti chiaro dalle mie precedenti argomentazioni, non sono d'accordo con l'utilizzo di questa logica. Infatti, in entrambi i casi l'errore è quello di generalizzare a tutti i soggetti l'effetto che un determinato stimolo ha su un campione più o meno grande di individui, e che comunque, anche nel caso questa reazione fosse generalizzabile, non è chiaro perché si debba desiderare di evocare questo tipo di "transfert" e non un altro (anche qui, rimando alla lucida critica di Gill [1984] al concetto di regressione in analisi). Intendo dire: perché mai non dovrebbe essere altrettanto interessante evocare un transfert diverso da quello che si manifesta nella psicoanalisi classica (o, se è per questo, con Internet)?

Per finire, va ricordato che vi è un aspetto indubbiamente assente nella psicoterapia in rete rispetto a quella non in rete: il corpo "fisico" del paziente. Questa assenza può essere un fattore fondamentale per le cosiddette terapie corporee, che nel loro armamentario appunto utilizzano il corpo in quanto tale all'interno della terapia, e non soltanto le fantasie o le emozioni su di esso. Sotto questo punto di vista, la psicoterapia in rete è sicuramente "inferiore" a quella tradizionale. Ma, se sono state ben comprese le riflessioni fatte finora, non possiamo non ammettere che anche la psicoterapia tradizionale, a rigor di logica, è inferiore a quella in rete, in quanto è deprivata di una serie di dati importanti, quelli della sola presenza del corpo "virtuale". La realtà "virtuale" e quella "reale" (ammesso che quest'ultima possa mai essere conosciuta in quanto tale - non è possibile in questa sede entrare nella questione filosofica della natura della realtà) non sono l'una superiore o inferiore all'altra, ma due diversi tipi di esperienza, ciascuna rispettabile e meritevole di essere indagata, e ciascuna capace di fornirci preziose informazioni sulla natura umana.